La vicenda
Un lavoratore assunto con contratto di collaborazione coordinata e continuativa, si rivolgeva al giudice per il riconoscimento delle attività di lavoratore subordinato con richiesta delle differenze retributive, l’indennità di preavviso, TFR, nonché al risarcimento del danno e alla regolarizzazione della posizione contributiva. Il Tribunale di primo grado ha accertato i presupposti del lavoro subordinato e ha condannato la P.A. a pagare un’indennità risarcitoria commisurata a sei mensilità della retribuzione, oltre interessi, rigettando ogni altra domanda. La Corte di appello ha, invece accolto anche la domanda del versamento del TFR.
Avverso la sentenza ha presentato ricorso la l’INPS dolendosi dell’errore dei giudici di appello nel riconoscere il TFR senza considerare che il relativo importo spetta in caso di cessazione del rapporto di lavoro subordinato, nella specie insussistente.
La conferma della sentenza
I giudici di Piazza Cavour nel respingere l’appello hanno precisato come, il Trattamento di fine rapporto (c.d. TFR) è un elemento della retribuzione il cui pagamento viene differito al momento della cessazione del rapporto di lavoro. Infatti, esso matura durante lo svolgimento del rapporto ed è costituito dalla somma di accantonamenti annui di una quota di retribuzione rivalutata periodicamente. In altri termini, esiste una stretta correlazione fra lo svolgimento di un rapporto di lavoro (subordinato) e l’accumulo della somma destinata a costituire il TFR, da un lato, e la cessazione del medesimo rapporto di lavoro e la nascita del diritto alla corresponsione del trattamento di fine rapporto, dall’altro. Il concetto di retribuzione deve, inoltre, essere inteso quale “corrispettivo della prestazione normale perché inerente al valore professionale delle mansioni espletate”. Pertanto, il diritto al TFR sorge per il semplice fatto della percezione di importi, principalmente in denaro, che compensino il “valore professionale delle mansioni espletate”, a nulla rilevando il dato formale dell’esistenza, al momento della cessazione del rapporto, di una esplicita qualificazione dello stesso come subordinato, assumendo valore solo la sostanza della prestazione resa con il lavoro, definibile in concreto come subordinata. La conseguenza, quindi, è che in caso di stipulazione di un contratto di collaborazione coordinata e continuativa con una P.A., al di fuori dei presupposti di legge, il lavoratore non può mai conseguire la conversione del rapporto in uno di lavoro subordinato a tempo indeterminato, ma solo una tutela risarcitoria, qualora il contratto di collaborazione abbia la sostanza di rapporto di lavoro subordinato, con conseguente diritto anche alla ricostruzione della posizione contributiva previdenziale. Se ciò è vero, allora il TFR compete all’interessato per il fatto stesso di avere ricevuto un compenso corrispondente al valore delle mansioni lavorative svolte, a condizione che tali mansioni siano riconducibili ad un rapporto di natura subordinata ed a prescindere dalla qualificazione formale dello stesso ad opera delle parti contraenti.
La Cassazione, partendo dal rigetto del ricorso della PA, ha stabilito il seguente principio di diritto: “In tema di pubblico impiego privatizzato, in caso di stipulazione di un contratto di collaborazione coordinata e continuativa che, in seguito ad accertamento giudiziario, risulti avere la sostanza di contratto di lavoro subordinato, il lavoratore non può conseguire la conversione del rapporto in uno di lavoro subordinato a tempo indeterminato con la P.A., ma ha diritto ad una tutela risarcitoria, nei limiti di cui all’art. 2126 c.c., nonché alla ricostruzione della posizione contributiva previdenziale ed alla corresponsione del trattamento di fine rapporto per il periodo pregresso”.
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