di Sergio Trovato
Una pronuncia della Suprema corte è occasione per definire come disporre la liquidazione
La cessata materia è uno dei casi in cui pagano tutte le parti
Le spese processuali devono essere compensate se l’amministrazione comunale e il contribuente definiscono la questione controversa con una transazione. Anche in presenza di un errore commesso dall’amministrazione pubblica, l’accordo transattivo con il quale le parti chiedono al giudice di dichiarare la cessata materia del contendere comporta la compensazione delle spese giudiziali. Lo ha affermato la Corte di cassazione, con l’ordinanza 22981 del 17 agosto 2021. Per i giudici di piazza Cavour, una delibera di assimilazione in materia di tassa rifiuti che non riporti la contestuale indicazione dei criteri qualitativi e quantitativi è illegittima e deve essere disapplicata. Pertanto, l’ente locale non poteva procedere all’assimilazione dei rifiuti speciali a quelli urbani, al fine di tassare l’immobile accertato. Tuttavia, nel caso in esame, il contribuente ha depositato un accordo transattivo con il comune, sottoscritto da entrambe le parti, con il quale è stato chiesto al giudice di prendere atto della definizione della lite. Secondo la Cassazione, «va dichiarata la cessazione della materia del contendere fra le parti intervenute nella transazione, con compensazione delle spese di lite». Compensazione delle spese e condanna in sede processuale.
La compensazione delle spese processuali ha sempre natura eccezionale. Il giudice arreca un danno alla parte vittoriosa se compensa le spese tra le parti e non motiva in fatto e in diritto le ragioni per le quali non ha condannato la parte soccombente. È così che si è espressa la commissione tributaria regionale di Palermo, sezione XII, con la sentenza 5563/2019. Per i giudici d’appello può essere disposta la compensazione, totale o parziale, delle spese di lite «solo se vi è soccombenza reciproca o concorrono altre gravi ed eccezionali ragioni da indicare esplicitamente nella motivazione». Il giudice di primo grado, invece, pur riconoscendo fondate le ragioni del contribuente, ha disposto la compensazione delle spese «astenendosi dall’argomentare le ragioni di fatto o di diritto sulle quali ha fondato la propria decisione». Non si può mai giustificare la compensazione con «il mero richiamo alla buona fede della parte soccombente, elemento che può assumere rilievo per escludere la responsabilità aggravata», ma che non fa venir il diritto della parte vittoriosa a ottenere la condanna alle spese.
La compensazione delle spese giudiziali può essere disposta dal giudice nel caso di soccombenza reciproca, se la questione trattata rappresenta un’assoluta novità o qualora vi sia un mutamento nell’orientamento giurisprudenziale. Rientra tra le ipotesi di compensazione delle spese anche quella in cui le parti redigono un accordo transattivo, con il quale pongono fine alla controversia, e chiedono al giudice di dichiarare la cessata materia del contendere. La regola è che chi perde è tenuto a pagare le spese processuali. Di fatto, non esistono più come in passato compensazioni a pioggia nel processo tributario. La Cassazione (ordinanza 14550/2015) ha stabilito che la vittoria non può mai tradursi di fatto in una sconfitta. Ed è quello che accade se il giudice tributario compensa le spese di lite solo perché, per esempio, la causa è di valore modesto. Si lede il diritto di agire in giudizio se la parte vittoriosa non recupera le spese sostenute. Inoltre, subisce un evidente danno se l’importo delle spese supera quello del pregiudizio economico che ha inteso evitare proponendo ricorso. Peraltro, l’amministrazione pubblica è tenuta a pagare le spese processuali anche se non si costituisce in giudizio o riconosce fondati i motivi di contestazione della pretesa tributaria eccepiti dal contribuente. È tenuto a pagare le spese processuali chiunque dia luogo inutilmente al processo o al suo protrarsi. A maggior ragione se la parte in causa soccombente è l’amministrazione pubblica, che dovrebbe agire con la dovuta cautela per evitare che il cittadino sostenga dei costi per difendersi in sede giudiziale. Del resto, la condanna di chi soccombe in giudizio, oltre a deflazionare il contenzioso, tutela la parte vittoriosa. È stata ritenuta ingiusta la sentenza che non condanna il fisco a pagare le spese processuali se non ci sono valide ragioni o non c’è una soccombenza reciproca delle parti in giudizio. In questo modo si è espressa la commissione tributaria regionale di Roma, sezione XXI, con la sentenza 2068/2018.
Per i giudici d’appello, nella motivazione della sentenza di primo grado «non v’è traccia di motivazioni atte a giustificare la compensazione delle spese. E poiché dalla sentenza in questione non deriva alcuna soccombenza reciproca, la statuizione compensativa non appare giustificata». Con l’ultimo intervento normativo di riforma (decreto legislativo 156/2015) della disciplina processuale tributaria, in effetti, il legislatore ha limitato ancor di più il potere del giudice di compensare le spese processuali. L’articolo 15 del decreto legislativo 546/1992, quasi interamente riscritto dalla legge di riforma, impone un maggior rigore in caso di soccombenza. Va ricordato poi che questa norma, nella parte in cui dispone il pagamento dell’onorario per il funzionario dell’ente impositore, presuppone necessariamente l’avvenuta costituzione in giudizio dell’amministrazione. Se l’amministrazione pubblica non si costituisce nei giudizi di primo grado o d’appello per difendere la pretesa tributaria contestata dal contribuente, non ha diritto alla liquidazione delle spese processuali, nonostante vi sia un esito del giudizio favorevole. La competenza a decidere sulle spese. Le sezioni unite della Cassazione (sentenza 14554/2015) hanno anche precisato che spetta alle commissioni tributarie decidere le controversie sulle spese legali che scaturiscono dalle liti tra contribuenti ed enti impositori. Sono devolute alla giurisdizione di Ctp e Ctr tutte le controversie su ogni accessorio relativo ai tributi nazionali e locali. Le espressioni utilizzate dal legislatore nella formulazione dell’articolo 2 decreto legislativo 546/1992, quali «ogni altro accessorio» o «altri accessori», per la loro latitudine ricomprendono, «senz’altro, le spese processuali». Non a caso tra gli atti impugnabili elencati dall’articolo 19 della normativa processuale tributaria (decreto legislativo 546/1992) è contemplato anche il diniego di rimborso di tributi o di altri accessori. Nell’ambito delle spese devono essere conteggiati il contributo unificato, l’Iva, il contributo previdenziale, nonché gli onorari, i diritti del difensore e tutti gli esborsi sostenuti.
In collaborazione con Mimesi s.r.l.
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