Il fatto
Il RUP era stato condannato dalla Corte dei conti di primo grado, al danno erariale derivante dalla inutilizzabilità di imponenti opere pubbliche infrastrutturali realizzate in assenza delle necessarie autorizzazioni. La sua responsabilità discendeva dall’aver validato il progetto esecutivo attestandolo conforme alla normativa vigente e certificando l’acquisizione di tutte le approvazioni e autorizzazioni di legge necessarie ad assicurare la cantierabilità del medesimo, dimostratesi successivamente non veritiere per mancanza dell’autorizzazione paesaggistica, trattandosi di area sottoposta a vincolo. Al fine di porre rimedio all’irregolarità, il RUP aveva richiesto successivamente l’autorizzazione in sanatoria accolta dal competente ufficio regionale, ma solo per una parte dei lavori, mentre altri realizzati avrebbero dovuto essere demoliti per rimessione in pristino dei restanti luoghi.
Avverso la sentenza di condanna il RUP ha proposto ricorso in appello per l’insussistenza di un danno erariale ingiusto, conseguente a una condotta antigiuridica, essendovi presupposti, contrariamente a quanto opinato dall’amministrazione preposta alla tutela paesaggistica, per riconoscere la sanabilità anche delle altre opere, come peraltro ritenuto anche dalla stessa amministrazione comunale danneggiata che ha impugnato, con ricorso straordinario al Capo dello Stato, il predetto provvedimento di diniego. Tuttavia, prima della discussione del ricorso è stata depositata nota ministeriale attestante la mancata coltivazione, da parte del comune, del ricorso al Capo dello Stato.
La conferma della condanna
Il Collegio di appello ha confermato il danno erariale. Infatti, il ricorso spiegato dal RUP è concentrato sostanzialmente sulla ritenuta sanabilità ex art. 167, d.lgs. n. 42/2004, dell’abuso commesso nella realizzazione delle opere di riqualificazione urbanistica che ne occupa e, come tale pretesa, appare con divisibilmente esclusa sulla scorta della corretta interpretazione degli artt. 146 e 167 del codice dei beni culturali. In particolare, l’art. 167, al comma 4, non consente la regolarizzazione postuma di opere che abbiano creato o aumentato volumi e superfici utili. Del resto, la rinuncia del Comune, pure interessato ad ottenere la conformità paesaggistica delle opere suddette, all’impugnativa amministrativa del diniego fondato su tale accertamento tecnico, appare sintomo evidente della inverosimiglianza della tesi inizialmente sostenuta e ribadita dall’appellante. In ragione dell’illegittimità dei lavori in questione, la consequenziale illiceità della condotta serbata dal prevenuto, in parte commissiva e in parte omissiva, avendo costui, da una parte, attestato la regolarità autorizzatoria dei lavori da appaltarsi e, dall’altra, mancato di verificare siffatta compatibilità, chiedendo le eventuali autorizzazioni del caso alle autorità preposte alla tutela del vincolo paesaggistico, appare manifesta. Infatti, solo successivamente alla sua rilasciata dichiarazione di conformità, il RUP si determinò per “correggere il tiro”, chiedendo l’accertamento postumo dello stato legittimo dell’opera, in tal modo evidenziando la consapevolezza di aver mancato di adempiere a suo tempo ai propri doveri d’ufficio, a sua volta integrante il dolo c.d. “civile contrattuale”, sufficiente ai fini dell’imputazione soggettiva dell’illecito a costui trattandosi di condotta verificatasi antecedentemente all’entrata in vigore dell’art. 21, d.l. n. 76/2020. Non è, inoltre, possibile alcuna riduzione del danno erariale causato all’ente, in quanto incompatibile con l’obbligo di riduzione in pristino dello stato dei luoghi, che ha reso del tutto inutile la spesa effettuata.
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