I fatti contestati
La procura, a seguito di sentenza irrevocabile, ex art. 444, Applicazione della pena su richiesta, c.p.p., con la quale veniva condannato alla pena concordata di anni due per i reati di peculato, falso materiale commesso dal pubblico ufficiale e truffa aggravata, disponeva la richiesta erariale per danno patrimoniale e danno all’immagine (la sentenza viene trasmessa dal Tribunale alla Procura erariale, ex comma 7, Allegato 1 – art. 51, Notizia di danno erariale, del d.lgs. 26 agosto 2016, n. 174, Codice di giustizia contabile)[1].
Emergeva che la condotta consisteva nella «falsificazione dei mandati di pagamento (in duplice copia, una recante la falsa indicazione di un soggetto beneficiario con apposizione del timbro “pagato” ed uno, presentato per l’incasso, con indicazione della convenuta come beneficiario)», donde l’appropriazione illecita delle somme. Nelle more della sentenza di condanna veniva raggiunto un accordo transattivo con la PA di appartenenza.
Tuttavia, al di là del risarcimento del danno operato dalla Procura penale, limitatamente ad un periodo non coperto dalla prescrizione del reato, la Procura erariale chiedeva:
- l’ulteriore ristoro a titolo di danno patrimoniale, in relazione ad un diverso periodo, per i mandati accreditati sul proprio conto corrente;
- la condanna a titolo di danno di immagine in considerazione del notevole discredito testimoniato dagli articoli di stampa.
Le evenienze delle condotte illecite: precisazioni
Dagli atti del procedimento penale viene appurata:
- la «piena responsabilità sul settore Bilancio, attraverso la falsificazione di mandati di pagamento su cui aveva piena competenza» (acclarando la vigenza sia del rapporto di servizio che dell’esercizio proprio della funzione e competenza attribuita dalla legge in qualità di responsabile) appropriandosi illecitamente «dell’ingente importo di oltre 800 mila euro»;
- il “sistema” messo in atto consisteva nell’elaborazione «dei falsi mandati di pagamento in duplice copia: mentre sulla copia mantenuta in ufficio apponeva il timbro “pagato” e indicava un falso ma credibile beneficiario, nella copia presentata al tesoriere per l’incasso indicava sé medesima come beneficiaria, ottenendo così l’accredito delle somme sul proprio conto corrente» (la falsificazione funzionale all’occultamento dell’illecito).
Il patteggiamento comportava il concordamento della pena «di anni due per i reati di peculato, falso materiale commesso da pubblico ufficiale e truffa aggravata», e di riflesso la connotazione dall’elemento soggettivo del dolo[2].
La difesa del convenuto
Da parte della difesa, eccepisce da prima «come i fatti posti in essere dalla convenuta fossero ampiamente riconoscibili dal Direttore del Consorzio, dai Revisori dei conti nonché dalla Banca tesoriere» (forse nell’intento di assecondare la mancata vigilanza o l’inadeguatezza delle misure di prevenzione della corruzione e della trasparenza, rientrando la materia della “spesa” tra le aree a “rischio” da monitorare, come si avrà subito modo di riferire).
Inoltre, nel merito afferma:
- l’avvenuto risarcimento e «come nell’atto transattivo le parti hanno dato atto che con il risarcimento della somma complessivamente pattuita in euro 620.000,00 il Consorzio avrebbe rinunciato a qualsiasi ulteriore azione e pretesa»;
- seleziona, altresì, una sorta di esimente quando «richiama nuovamente i mancati controlli e verifiche previsti dalla normativa: la negligenza degli organi di controllo, interni ed esterni, determinerebbe una conseguente compartecipazione alla condotta foriera di danno»;
- invoca, in subordine, il potere riduttivo, avendo in parte contribuito (atto dovuto) alla restituzione di tutto quanto indicato nella sentenza penale.
La prescrizione
Con particolare riferimento al termine di prescrizione dell’azione erariale la Corte rammenta che:
- il momento di decorrenza del termine della prescrizione quinquennale per esercitare il diritto risarcitorio va collocato, come statuito dall’art. 1, comma 2, della legge n. 20 del 1994, non al momento in cui si è verificato il fatto dannoso bensì alla data della scoperta (dies a quo), intesa come oggettiva conoscibilità del danno stesso, in aderenza alla regola generale dettata dall’art. 2935 c.c. secondo cui «la prescrizione comincia a decorrere dal momento in cui il diritto può essere fatto valere»;
- nel momento della conoscibilità effettiva del danno da parte della Procura regionale o dell’Amministrazione danneggiata, soggetti entrambi competenti a porre in essere atti di costituzione in mora nei confronti dei presunti responsabili: nel caso di specie, il “rinvio a giudizio” ove vi è la piena contezza dei fatti dolosi;
- l’eccezione alla regola generale, nell’ipotesi derogatoria codificata nel cit. art. 1, di “occultamento doloso del danno”, richiedente lo spiegamento di accorte attività finalizzate al disvelamento dei fatti consistente proprio nell’impedire/prevenire la loro conoscenza, ovvero «la scoperta di un danno ancora in fieri oppure a nascondere un danno ormai prodotto»[3]: nel senso, più esteso di celare/sottrarre (alla PA o a terzi) la immediata consapevolezza della lesione inferta al patrimonio pubblico[4];
- corrisponde ad una situazione diversa ed ulteriore rispetto all’attività di consumazione dell’illecito contabile, consistendo in un quid pluris, che si aggiunge al dolo inteso come elemento strutturale dell’illecito[5], nel senso che si assume un comportamento non dovuto (estraneo al fatto causativo del danno) volto al raggiro, callido, teso con atti commissivi al nascondimento, di cui deve lasciar baluginare l’intenzionalità[6];
- in mancanza del cit. quid pluris, che si aggiunge al dolo inteso come elemento strutturale dell’illecito, la prescrizione del diritto al risarcimento del danno erariale inizia a decorrere da quando l’Amministrazione danneggiata abbia preso, o avrebbe potuto prendere (usando l’ordinaria diligenza)[7] conoscenza del comportamento dannoso non già dalla conoscenza che del danno stesso abbia la Procura contabile[8].
La conoscibilità obiettiva del danno presuppone, dunque, che il danno si sia verificato e, in secondo luogo, che sia conoscibile secondo ordinari criteri di diligenza[9].
I controlli e le misure di prevenzione della corruzione
Su questo ultimo aspetto, pare giusto osservare che la scoperta dell’illecito può essere prevenuta (rectius accertata) attraverso delle “misure di prevenzione della corruzione”, mediante (ad esempio) un’attività di controllo a campione sui mandati (attività, peraltro, di competenza ordinaria dell’organo di revisione, ex art. 1, art. 223, Verifiche ordinarie di cassa, del d.lgs. n. 267/2000)[10], avendo cura di verificare interamente tutto il processo di liquidazione, dando prova di aver effettuato un attento monitoraggio delle attività a rischio (quale, quella individuata dal PNA 2015)[11], evitando di dover rispondere sui mancati controlli.
In effetti, si legge nella sentenza, che l’elevato ruolo ricoperto (e conseguente responsabilità assunte), l’assenza di procedimenti disciplinari pregressi, era elemento dirompente di affidabilità «nel modo più assoluto», con il precipitato:
- dell’oggettiva «difficoltà per qualunque controllo interno di disvelare quanto accadeva: anche un esame a campione dei mandati non avrebbe fatto emergere con certezza la sottesa truffa»;
- l’utilizzo di un timbro falso apposto sui mandati di pagamento si presumeva «fosse legittimamente utilizzato»;
- al punto da ammettere – senza riserve – che «se anche il dirigente superiore gerarchico avesse controllato i mandati di pagamento emessi dalla convenuta, non avrebbe visto che un beneficiario apparentemente legittimo».
Invero, un controllo puntuale di tutto il processo, compresa la verifica dei destinatari/intestatari dei conti correnti, avrebbe forse consentito di appurare l’erroneità del pagamento, anche in relazione alla serialità degli stessi intestati al convenuto (l’emersione dell’illecito giungeva per altre vie: da un esposto riferito ad un diverso procedimento che ha comportato l’esame dei movimenti bancari dell’interessato, «emergeva l’esistenza di molteplici e sospette transazioni di denaro in suo favore»).
Nella pratica del caso, gli artifici posti in atto e l’autorevolezza della posizione ricoperta impedivano, per le ragioni espresse, una difficile emersione dell’illecito, non potendo attribuire alla struttura amministrativa alcuna responsabilità.
In questo senso, viene negata la compartecipazione causale degli organi interni (dirigente sovraordinato) ed esterni (collegio dei revisori e banca tesoriere) proprio in ragione:
- della presenza di artifizi e raggiri tali da rendere particolarmente complesso il disvelamento della truffa posta in essere;
- l’eventuale riconoscimento di compartecipazione dei controllori non avrebbe alcun riflesso quanto alla posizione della convenuta a «fronte ad una condotta chiaramente dolosa, l’eventuale responsabilità di altri soggetti a titolo colposo sarebbe meramente sussidiaria e, pertanto, la convenuta non potrebbe giovarsene in alcun modo».
L’accordo transattivo
Sull’accordo transattivo sottoscritto per ristorare il danno, e di conseguenza eliminare la richiesta erariale, la Corte si limita ad osservare che viene riferito ad annualità diverse ed – in ogni caso – rammenta che «l’unico organo deputato alla quantificazione del danno erariale è la Procura Regionale, senza che l’Amministrazione danneggiata possa avere alcuna facoltà dispositiva dello stesso. L’eventuale azione di recupero dell’Amministrazione, sempre possibile, avviene quindi fatta salva la valutazione dell’organo requirente circa la portata interamente satisfattiva del risarcimento e ciò sul dato della quantificazione del danno che viene operata dall’organo giurisdizionale».
Condanna erariale e potere riduttivo
Pare giusto rammentare che la condanna alla rifusione del danno erariale ha la funzione di risarcire l’Amministrazione di appartenenza del reo del danno subito per effetto della condotta incriminata[12].
Solo laddove fosse dimostrato che, all’esito del giudizio civile di danno (eventualmente esercitato in sede penale, attraverso la costituzione di p.c.)[13], quest’ultimo sia stato interamente riparato, al più, porsi un problema di proponibilità della domanda dell’attore pubblico, sotto il profilo dell’interesse ad agire (avendo ottenuto in toto il risarcimento)[14].
Più in generale, nei rapporti tra l’Autorità giudiziaria ordinaria e contabile, in ordine ai medesimi fatti storici, non sussiste interferenza tra giurisdizioni, ma solo eventuale improponibilità della domanda con riferimento al danno già completamente ristorato[15].
Di guisa che il rivendicato giudicato penale sull’an e il quantum in alcun modo vincola le omologhe statuizioni del giudice contabile, in quanto pronunciate sulla scorta di una disciplina e una competenza giurisdizionale prevista ad hoc per tale plesso magistratuale, ai sensi del precetto, di cui all’art. 538, Condanna per la responsabilità civile, secondo comma, c.p.p. che gli imporrebbe una condanna solo generica per siffatta tipologia di danno essendo la “competenza” devoluta per legge ad altro giudice (quello erariale)[16].
È opportuno chiarire, invero, che mentre l’Autorità giudiziaria ordinaria è certamente competente a conoscere del danno all’immagine subito dalla PA con riferimento alle condotte dell’extraneus, e, con riferimento alla posizione dell’intraneo dovrebbe essere esclusivamente la Corte dei conti, nell’ambito del giudizio di responsabilità, a pronunciarsi su di esso, in quanto a ciò deputata dall’ordinamento.
L’approdo postula che tale azione è ontologicamente unitaria nella sua “fattualità”:
- sia che a recuperare lo stesso si attivi la stessa Amministrazione attraverso la costituzione di parte civile in un giudizio penale, o attraverso una autonoma azione civile;
- sia nel caso in cui l’azione recuperatoria venga attivata dalla magistratura contabile;
- ne consegue che la duplice e concorrente legittimazione attiva all’azione recuperatoria in capo al giudice ordinario e quello contabile, non “moltiplica” né “sdoppia” l’unitarietà del credito pubblicistico, che resta unico perché unico è il danno arrecato alle casse erariali[17].
Ciò posto, dal quadro e dall’insieme di tutti gli elementi emersi viene quantificato il danno patrimoniale nella pretesa della Procura ed escluso il potere riduttivo non solo per carattere doloso della condotta tenuta ma soprattutto, la futilità dei motivi: «I direttori prendevano uno stipendio di circa 4.000 euro al mese… A me pareva un’ingiustizia e pertanto ho deciso di prendere il denaro per farmi giustizia».
L’evidenza della confusione sul significato e valore attribuito ai principi che devono governare la condotta del dipendente pubblico (ex art. 3 del dpr n. 62/2013), che trova riscontro disseminato direttamente in Costituzione (ad es. nell’art. 54, «I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore»)[18], hanno portato il Giudice erariale a concludere nel «palese spregio per il proprio ruolo istituzionale (rectius, l’abuso dello stesso) escludono in radice una riduzione dell’addebito».
A margine e fuori testo, a fronte di tale operoso “virtuosismo” si potrebbe citare uno dei fondatori de La Comédie humaine: «è meglio godere della ricchezza dei sentimenti che del lusso dei vestiti»[19].
Il danno d’immagine
Il danno all’immagine della Pubblica Amministrazione coincide non già con il fatto lesivo (la condotta illecita), ma con la lesione (perdita di prestigio), che costituisce una “conseguenza” (ex art. 1223 c.c.) del fatto lesivo[20].
Sul danno all’immagine[21] viene rilevata la presenza di tutti i presupposti di legge (reato contro la Pubblica Amministrazione, una sentenza del giudice ordinario penale passata in giudicato, il rapporto di servizio, il rilevante clamor fori) quantificato, in considerazione della natura essenzialmente “immateriale” del bene leso, in base al criterio equitativo (ex art. 1226 c.c.).
La prospettazione elencata rende di sensibile attualità la precisazione che, pur in presenza di una condanna penale del dipendente pubblico per un reato contro la PA, il danno all’immagine deve essere provato dal procuratore, non esistendo alcun automatismo[22].
Si conferma che ogni azione dannosa compiuta dal pubblico dipendente in violazione dell’art. 97 Cost., in dispregio delle funzioni e delle responsabilità assunte e, a maggior ragione, in presenza di commissione di reati e di illeciti, si traduce in un’alterazione dell’identità della Pubblica Amministrazione e, più ancora, nell’apparire di una sua immagine negativa, dovendo quantificare il preteso risarcimento con riferimento specifico al ristoro della lesione conseguente al clamore che la vicenda ha suscitato nell’opinione pubblica (specie nei mezzi di comunicazione di massa), al necessario discredito dell’intera PA di appartenenza per il ruolo di vertice rivestito dal Responsabile che ha adottato le illustrate condotte[23].
Giova, per completezza espositiva, che il criterio del doppio dell’utilità ritratta dal reato, stabilito dall’art. 1 comma 1 sexies, della n. 20/1994 (comma inserito dall’art. 1, comma 62, della legge 6 novembre 2012, n. 190), invero, rappresenta solo una presunzione iuris tantum (e non iuris et de iure) di quantificazione del danno all’immagine che, come tale, ben può essere vinta dal prevenuto, al fine di conformare il veduto criterio generale – dettato sia per fini di certezza della quantificazione e di limite alla stessa (a favore del reo), che di agevolazione probatoria (per il p.m.) – più aderentemente alla realtà dei fatti.
[1] Cfr. Corte dei Conti, sez. III App., 31 marzo 2020, n. 66, ove si riporta che con l’entrata in vigore del Codice di giustizia contabile, con la formulazione dell’art. 51, comma 7, c.g.c. e con l’abrogazione dell’art. 7, della legge n. 97/2001, non ha fatto venir meno il limite della proponibilità dell’azione risarcitoria per danno d’immagine previsto dall’art. 17, comma 30 ter, del D.L. n. 78/2009, per i soli delitti commessi dai pubblici ufficiali contro la PA di cui al Libro II, Titolo II, Capo I del codice penale.
[2] L’elemento di prova circa l’effettivo compimento dei fatti costituenti reato, rappresentato dalla sentenza “patteggiata”, potrà essere disatteso dal giudice erariale solo con adeguata motivazione ed ove il soggetto autore del contestato illecito spieghi e renda idonea prova delle ragioni per cui ha ammesso una responsabilità penale ed il giudice non lo abbia tuttavia assolto. La richiesta di pena patteggiata non comporta un accertamento invincibile di responsabilità, come, invece, accade con il giudicato penale a seguito di dibattimento, ma può essere contestata, in un giudizio diverso da quello penale fondato sui medesimi fatti, attraverso la prova della inattendibilità della veridicità dei fatti versati nel giudizio penale, iniziando dai motivi per i quali è stato chiesto di patteggiare la pena pur non essendo il richiedente autore dei fatti illeciti, Corte dei Conti, sez. giur. Piemonte, 15 settembre 2015, n. 178.
[3] Corte dei conti, sez. III App., 14 dicembre 2006, n. 474
[4] Corte dei conti, sez. giur. Piemonte, sentenza n. 101/2014.
[5] Corte dei conti, sez. giur. Veneto, 7 luglio 2005, n. 992; sez. giur. Lombardia, 12 dicembre 2005, n. 278; sez. giur. I App., sentenza n. 40/2009; sez. giur. Veneto, sentenza n. 224/2014.
[6] Corte dei Conti, sez. III App., 20 dicembre 2012, 830.
[7] Si ritiene sussistere un doloso occultamento, rilevante nei confronti del creditore, solo laddove si sia in presenza di una condotta fraudolenta, da parte del debitore, e che sia stata tale da comportare, per l’altra parte, una vera e propria impossibilità di agire, non una mera difficoltà di accertamento del credito, Cass. civ., sentenze nn. 26355/2005, 1222/2004, 10592/1998 e 5682/1985.
[8] Corte dei Conti, sez. App. Sicilia, 29 gennaio 2010, n. 33; sez. giur. Calabria, sentenze n. 271/2013 e n. 373/2012; sez. giur. Liguria, sentenza n. 116/2014.
[9] Corte dei Conti, sez. giur. Toscana, 25 ottobre 2022, n. 344.
[10] Le verifiche periodiche del revisore (ex artt. 223, 224, 239, del d.lgs. n. 267/2000), che si sostanziano nelle relazioni e nei verbali, costituiscono documentazione prodromica significativa e rilevante nello svolgimento dell’esame giurisdizionale dei conti degli agenti contabili delle Pubbliche Amministrazioni, ai fini della valutazione delle risultanze gestionali, Corte dei Conti, sez. giur. Veneto, 1° febbraio 2022, n. 17. Di converso, sussiste la colpa grave dei revisori per omesso controllo della regolare tenuta della contabilità e per il mancato versamento delle entrate riscosse da parte dell’economo e responsabile del servizio di ragioneria, il quale dolosamente ha disatteso alla regolare gestione e rendicontazione alle quali era tenuto in ragione del suo ufficio, Corte dei Conti, sez. giur. Marche, 6 ottobre 2010, n. 163.
[11] Aggiornamento 2015 al Piano Nazionale Anticorruzione, determinazione ANAC n. 12 del 28 ottobre 2015, pag. 17, ove si individuano ulteriori aree a rischio rispetto a quelle obbligatorie, definite dalla legge n. 190/2012: «aree con alto livello di probabilità di eventi rischiosi. Ci si riferisce, in particolare, alle aree relative allo svolgimento di attività di: – gestione delle entrate, delle spese e del patrimonio; – controlli, verifiche, ispezioni e sanzioni; – incarichi e nomine; – affari legali e contenzioso. Queste aree, insieme a quelle fin qui definite “obbligatorie” sono denominate d’ora in poi “aree generali”».
[12] Corte dei Conti, SS.RR., sentenza n. 10/QM/2003.
[13] L’azione di responsabilità per danno erariale è volta alla tutela dell’interesse pubblico generale, al buon andamento della PA e al corretto impiego delle risorse pubbliche, con funzione prevalentemente sanzionatoria, mentre la responsabilità civile è finalizzata, invece, al pieno ristoro del danno, con funzione riparatoria ed integralmente compensativa, a protezione dell’interesse particolare della singola Amministrazione attrice, rilevando che l’eventuale interferenza che può determinarsi tra tali giudizi pone esclusivamente un problema di proponibilità dell’azione di responsabilità (nonché di eventuale osservanza del principio del ne bis in idem), senza dar luogo a questione di giurisdizione, Cass. civ., SS.UU., 21 ottobre 2005, n. 20343.
[14] Corte dei Conti, sez. I App., 21 ottobre 2022, n. 466.
[15] Cass. civ., SS.UU., sentenza n. 7457/2020.
[16] Corte Cost., sentenza n. 272/2007. Vedi, Cass. civ., SS.UU., ordinanza 4 ottobre 2019, n. 24859, dove si riferisce che non è prevista una riserva di giurisdizione esclusiva in favore del giudice contabile, in quanto l’art. 17, comma 30 ter, del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78, convertito, con modificazioni, nella legge 3 agosto 2009, n. 102, nel prevedere la proposizione dell’azione per il risarcimento del danno all’immagine da parte delle procure regionali della Corte dei conti nel giudizio erariale, si limita a circoscrivere oggettivamente l’ambito di operatività dell’azione, senza introdurre una preclusione alla proposizione della stessa dinanzi al giudice ordinario da parte dell’Amministrazione danneggiata.
[17] Corte dei Conti, sez. giur. Lombardia, sentenza n. 1478/2003.
[18] L’art. 54 Cost., da valutare in sinergia con l’articolo 97 Cost., stabilisce che le funzioni pubbliche devono essere esercitate con disciplina ed onore e che i pubblici uffici devono essere organizzati secondo disposizioni d legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’Amministrazione, Cass. pen., sez. VI, 23 maggio 2019, n. 22871.
[19] BALZAC, Il colonello Chabert, 1832.
[20] Corte dei Conti, SS.RR., sentenza n. 1/2011/QM.
[21] Il “danno all’immagine” ed “al prestigio” della Pubblica Amministrazione – riconducibile alla categoria del danno “non patrimoniale”, ex art. 2059 cod. civ. – consiste nella diminuita reputazione dell’ente presso i consociati, o presso una certa platea di consociati, conseguente alla lesione di diritti fondamentali della persona, riconosciuti e garantiti dalla Costituzione all’art. 2 e all’art. 97 per la “Pubblica Amministrazione” nel suo complesso, Corte dei Conti, sez. giur. Liguria, 30 dicembre 2014, n. 153.
[22] Corte dei Conti, sez. giuri. Piemonte, Ordinanza 13 maggio 2021, n. 164.
[23] Cfr. Corte dei Conti, sez. III, giur. centrale, 22 luglio 2013, n. 522, dove viene quantificato il danno d’immagine in relazione: al valore del bene giuridico leso (personalità e immagine della P.A.), all’importanza della Amministrazione danneggiata e delle funzioni pubbliche sacrificate, alla diffusività dell’episodio nella collettività, alla gravità oggettiva dei fatti, all’improprio utilizzo dei beni mobili pubblici, all’uso del denaro pubblico in totale dispregio delle finalità della PA di appartenenza, alla reiterazione degli illeciti, alla qualifica dell’autore degli illeciti e di vertice istituzionale.
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