Inconferibile l’incarico professionale al proprio dipendente se non previsto dalla legge

6 Dicembre 2023
Modifica zoom
100%
L’amministrazione non è abilitata ad autorizzare un proprio dipendente al di fuori delle previsioni legislative ed attribuire al medesimo compensi professionali anche se versati da un terzo soggetto all’amministrazione, in considerazione, in quest’ultimo caso, di un evidente conflitto di interesse tra ente e dipendente. Con queste motivazioni la Cassazione (ordinanza n.33261/2023) ha respinto il ricorso di un dipendente che ambiva alla remunerazione delle attività professionali di perito espletate in favore dell’ente per un soggetto terzo, nonché alla restituzione delle somme prima elargite dall’ente e poi successivamente recuperate.

La vicenda

Ad un tecnico di un ente pubblico non economico sono stati affidati incarichi di redazione di una valutazione di stima di immobili ai fini di una corretta erogazione di mutui per la prima casa in favore di dipendenti pubblici suoi assicurati. Il singolo soggetto terzo, per tali attività di stima, versava all’ente un importo che, inizialmente veniva corrisposto come salario accessorio al dipendente dell’ente cui era stato ordinato di redigere la perizia di stima. Tuttavia, successivamente l’ente, accortosi della violazione della normativa sugli incarichi ai propri dipendenti, non previsti da disposizioni legislative ma dà un atto regolamentale interno, ha attivato la procedura di restituzione dei compensi ricevuti fino a quel momento dal dipendente e, ha negato per le successive attività di stima effettuate, l’erogazione di qualsiasi compenso ai dipendenti nominati. Il dipendente sentendosi leso dal comportamento dell’ente, ha adito il giudice civile al fine di fa dichiarare l’illegittimità del recupero del salario accessorio ricevuto, e chiedere in aggiunta, per le successive stime, la remunerazione prevista dal regolamento dell’ente. Il Tribunale di primo grado ha dato ragione al dipendente, mentre la Corte di appello ne ha rigettato il ricorso rilevando, da un lato, l’illegittimità del conferimento di un incarico libero professionale al proprio dipendente per svolgere un’attività da considerare «di carattere istituzionale» e, dall’altro lato, la mancanza, da parte del lavoratore, di precisa allegazione e offerta di prova che il lavoro per la redazione delle perizie fosse stato svolto al di fuori dell’orario di servizio.

Avverso la sentenza ha proposto ricorso in Cassazione il dipendente, dolendosi dell’errore dei giudici di appello nel non aver rilevato un rapporto contrattuale di natura libero professionale tra l’utente ed il tecnico indicato dal proprio ente, ed alla sussistenza di obbligazioni tra i due soggetti discendenti dalle previsioni del Regolamento. Detto rapporto era previsto dal regolamento dell’ente secondo cui, con la presentazione della domanda di mutuo ad opera del richiedente e con l’accettazione del perito individuato dall’Ente, si creerebbe un rapporto obbligatorio trilaterale, con obbligazioni dirette fra i due soggetti (perito e richiedente). In questo caso, pertanto, sarebbe erronea la conclusione della sentenza sulla riconducibilità dell’attività peritale alla attività istituzionale dell’Ente, nonché l’appartenenza e la riconducibilità, delle attività svolte dal ricorrente, alle mansioni oggetto del rapporto di lavoro, nonostante la possibilità da parte del dipendente di poter rifiutare gli incarichi affidati. In altri termini, nel caso di specie troverebbe applicazione la disposizione contenuta al comma 7 dell’art.53 del d.lgs. 165/01 il quale consente incarichi di soggetti terzi, purché autorizzati dal datore di lavoro pubblico. Infatti, a suo dire, i giudici di appello sarebbero caduti in contraddizione, affermando, da un lato, che la redazione delle perizie rientrava nei doveri d’ufficio del dipendente e, dall’altro lato, che questo avrebbe potuto rifiutare gli incarichi. D’altra parte, non era l’ente a pagare il proprio dipendente, a titolo di retribuzione, ma il terzo mutuatario, a titolo di compenso per la prestazione resa in suo favore, sicché sarebbe del tutto fuori luogo il richiamo del giudice d’appello al principio di onnicomprensività della retribuzione.

Il rigetto del ricorso

Il ricorso del dipendente è stato dichiarato infondato dalla Cassazione. In primo luogo, infatti, è erronea l’affermazione del ricorrente secondo cui si sia in presenza di un contratto tra il perito e il mutuatario, il quale non potrà mai discendere da un atto regolamentare. Pertanto, è evidente come non sia possibile ipotizzare che il rapporto, tra perito e mutuatario, nasca da un atto negoziale disposto dall’ente «in favore e per conto di terzi soggetti», perché gli atti negoziali producono effetti solo tra le parti e l’eccezione consistente nel «contratto a favore di terzi» (art. 1411 c.c.) presuppone che il terzo acquisisca dal contratto solo diritti, mentre in questo caso il privato mutuatario assumerebbe l’obbligo di pagare il compenso al perito. In altri termini, l’incarico di redigere la perizia, conferito al ricorrente dal suo datore di lavoro, non può in alcun modo interpretarsi nel senso che tale somma sia da attribuire al perito in busta paga, con una partita di giro, mentre si tratta soltanto di un contributo alle spese per la gestione delle perizie. Pertanto, l’illegittimità, rilevata correttamente dal giudice di appello, consiste nell’avere inizialmente conferito l’ente un incarico professionale ad un proprio dipendente non consentito da alcuna norma legislativa, in quanto non può essere considerato come il datore di lavoro avrebbe ben potuto pretendere lo svolgimento di tale incarico nell’ambito del rapporto di lavoro istaurato con il proprio dipendente.

Deve essere, inoltre, respinta la doglianza del dipendente di voler assimilare l’incarico ricevuto ai sensi del comma 7 dell’art.53 del D.lgs. 165/01. Il Comma 2 di tale articolo 53, infatti, vieta di «conferire ai dipendenti incarichi, non compresi nei compiti e doveri di ufficio, che non siano espressamente previsti o disciplinati da legge o altre fonti normative, o che non siano espressamente autorizzati». In merito all’autorizzazione, essa non può riguardare l’incarico professionale da rilasciare al proprio dipendente, ma al solo fine di poter assumere incarichi da soggetti terzi, ipotesi questa, come visto, espressamente scartata dal giudice di merito. D’altra parte detto rapporto diretto è stato espressamente escluso e, se così non fosse, una relazione contrattuale diretta fra il tecnico ed il privato mutuatario finirebbe per collidere con il principio secondo cui in nessun caso possono essere autorizzati incarichi dai quali può sorgere una situazione, anche potenziale, di conflitto di interessi. Nel caso di specie, infatti, l’interesse del privato ad un dato esito della procedura valutativa del bene non è (e non potrebbe mai essere) coincidente con quello del soggetto erogatore del mutuo, che sulla base della valutazione determina il quantum erogabile.

In conclusione il ricorso è stato rigettato e il dipendente, in ragione della soccombenza, è stato condannato al pagamento delle spese del giudizio di legittimità.

Scrivi un commento

Accedi per poter inserire un commento