La vicenda
Una società privata ha conferito un incarico ad un dipendente pubblico, in assenza della previa verifica dell’autorizzazione da parte dell’amministrazione di appartenenza. L’Agenza delle Entrate emetteva ordinanza ingiunzione per la sanzione amministrativa irrogata pari al doppio dei compensi pattuiti e documentati dalle fatture emesse dal dipendente pubblico. Il Tribunale di primo grado a seguito dell’opposizione della società privata al decreto ingiuntivo, dichiarava la propria incompetenza territoriale che avrebbe dovuto essere quella della sede dell’amministrazione pubblica e non quella della società. Pertanto, in accoglimento dell’eccezione di incompetenza per territorio, dichiarava la nullità dell’ordinanza ingiunzione. La Corte di appello, in riforma della sentenza di primo grado, dichiarava la competenza del tribunale dove ha sede legale la società, accogliendo, inoltre, l’appello dell’Agenzia delle Entrate in merito alla legittimità della sanzione irrogata, precisando come dalla documentazione depositata sussistevano entrambi gli elementi oggettivo e soggettivo, dell’illecito. La società ha presentato ricorso in Cassazione sostenendo l’errore del giudice di appello nel ritenere sussistente l’elemento soggettivo dell’illecito a carico degli opponenti, ricorrendo al contrario l’esimente dell’incolpevole errore sul fatto. Infatti, la Corte di appello non avrebbe verificato la responsabilità del dipendente pubblico.
La conferma della sanzione
Per il giudice di legittimità avuto riguardo all’insussistenza dell’elemento soggettivo, in virtù del quale in tema di violazioni amministrative, l’errore sulla liceità della relativa condotta, correntemente indicato come «buona fede», può rilevare in termini di esclusione della responsabilità amministrativa solo quando esso risulti inevitabile, occorrendo a tal fine un elemento positivo, estraneo all’autore dell’infrazione, idoneo ad ingenerare in lui la convinzione della sopra riferita liceità, oltre alla condizione che da parte dell’autore sia stato fatto tutto il possibile per osservare la legge e che nessun rimprovero possa essergli mosso, così che l’errore sia stato incolpevole, non suscettibile cioè di essere impedito dall’interessato con l’ordinaria diligenza. In altri termini, l’onera della prova degli elementi positivi esterni che possano rivelare la sussistenza della buona fede è, infatti, a carico dell’opponente, e la relativa valutazione costituisce un apprezzamento di fatto di stretta competenza del giudice di merito, non sindacabile in sede di legittimità, se non sotto il profilo del vizio di motivazione. Nel caso di specie, dalla motivazione della Corte di appello risulta chiaro che i ricorrenti non hanno fornito nessuna prova dell’intervenuto elemento positivo impeditivo, né dell’aver fatto tutto il possibile affinché nessun rimprovero potesse essere loro mosso. Nel pubblico impiego contrattualizzato l’art. 53 del D.lgs. 165/01, nel suo insieme, consente l’esperimento di incarichi extraistituzionali retribuiti solo ove gli stessi siano «conferiti» dall’Amministrazione di provenienza, ovvero da questa preventivamente autorizzati, rimettendo al datore di lavoro pubblico la valutazione della legittimità dell’incarico e della sua compatibilità, soggettiva ed oggettiva, con i compiti propri dell’ufficio. All’applicazione di tale disciplina concorre il comma 9 dell’art. 53, che fa carico agli enti pubblici economici e ai datori di lavoro privati di chiedere la preventiva autorizzazione dell’Amministrazione di appartenenza del lavoratore. Quanto richiesto al datore di lavoro dal citato comma 9 non può essere trasferito a carico del lavoratore, dove anche quest’ultimo concorre all’attuazione della disciplina sulla incompatibilità (cumulo di impieghi e incarichi), ma la norma di riferimento per quest’ultimo va individuata nell’art. 53, comma 7, che prende in esame le conseguenze per il lavoratore della mancanza di autorizzazione a svolgere l’incarico extraistituzionale.
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