Inammissibile la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte dei conti sulla riedizione dei piani di riequilibrio

La questione nasce dall’intervento legislativo sui piani di riequilibrio non presentati nei termini perentori previsti dall’art.243-bis del Tuel, ovvero su quelli che pur non deliberati avrebbero dovuto essere presentati entro il termine dell’approvazione del bilancio di previsione 2015.

3 Maggio 2019
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La questione nasce dall’intervento legislativo sui piani di riequilibrio non presentati nei termini perentori previsti dall’art.243-bis del Tuel, ovvero su quelli che pur non deliberati avrebbero dovuto essere presentati entro il termine dell’approvazione del bilancio di previsione 2015 (articolo 2, comma 5-bis, del d.l. n. 78/2015).  Per questi enti, infatti, la legge di conversione del d.l. n.244/2016 ha previsto, all’art.5, comma 11-septies, che “il termine per poter deliberare un nuovo piano di riequilibrio finanziario pluriennale, secondo la procedura di cui all’articolo 243-bis del medesimo decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, é prorogato al 30 aprile 2017” precisando successivamente che “La facoltà … é subordinata all’avvenuto conseguimento di un miglioramento, inteso quale aumento dell’avanzo di amministrazione o diminuzione del disavanzo di amministrazione, registrato nell’ultimo rendiconto approvato dall’ente locale”.

La questione di legittimità costituzionale della norma

La Corte dei conti, sezione di controllo per la Regione siciliana, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale di tale normativa, in occasione del diniego ad un Comune che aveva predisposto il piano pluriennale oltre i termini perentori previsti dalla normativa e che, nonostante il suo ricorso avverso la decisione della Corte fosse stato rigettato anche in sede di ricorso alle Sezione Riunite in speciale composizione, aveva avuto modo di ripresentare il piano di riequilibrio nei nuovi termini previsti dalla successiva normativa oggetto di censura da parte dei giudici contabili. Secondo il Collegio contabile, la normativa statale, permettendo una riedizione di piani di riequilibrio già censurati dai Corte dei conti per il non rispetto dei termini perentori stabiliti dallo stesso legislatore, si vanificherebbero le stesse funzioni della Corte , e sospendendo il procedimento volto alla declaratoria di dissesto, la norma violerebbe il principio dell’equilibrio di bilancio e di sana gestione finanziaria dell’amministrazione (artt. 81, 97 e 119, primo comma, Cost.), che imporrebbe una disciplina di salvaguardia volta al tempestivo ed effettivo recupero dell’equilibrio finanziario – funzionale al principio di continuità dei bilanci, all’equità intergenerazionale, nonché alla trasparenza dei conti, a tutela del corretto esercizio del mandato elettorale e in correlazione alla responsabilizzazione degli amministratori pubblici. In questo caso la normativa sarebbe anche violativa di altri principi costituzionali (artt. 3 e 28 Cost.) in quanto impedendo la declaratoria di dissesto che altrimenti sarebbe intervenuta, allontanerebbe nel tempo l’emersione delle responsabilità degli amministratori che l’hanno determinato, secondo il regime che ne postula la formalizzazione, secondo gli artt. 246 e 248 del t.u. enti locali. Inoltre, permettendo la normativa statale di riavviare la procedura di riequilibrio altrimenti preclusa e di innestare su di essa ulteriori rimodulazioni o riformulazioni, la norma consentirebbe il procrastinarsi del blocco delle azioni esecutive dei creditori previsto dall’art. 243-bis, comma 4, del t.u. enti locali, comprimendo per un tempo sostanzialmente indeterminato la possibilità di agire in giudizio per realizzare coattivamente i propri diritti.

Le indicazioni della Consulta

Il Giudice delle leggi, con la sentenza n.105/2019, precisa in via preliminare come la rimodulazione non fosse stata libera per tutti gli enti ma esclusivamente per quelli che avessero certificato un «conseguimento di un miglioramento, inteso quale aumento dell’avanzo di amministrazione o diminuzione del disavanzo di amministrazione, registrato nell’ultimo rendiconto approvato dall’ente locale». In merito al termine utilizzato dal legislatore di “aumento dell’avanzo di amministrazione” lo stesso è da ritenersi incompatibile con la preesistenza o l’avviamento del piano pluriennale di riequilibrio, generando confusione negli enti territoriali. Tanto da essere stato confuso con il saldo attivo di cassa o con un risultato di esercizio annuale positivo, considerando che detti miglioramenti ben possono essere inidonei a compensare interamente lo squilibrio strutturale così come non lo è per l’avanzo di amministrazione. Quest’ultimo, inoltre, lo sarebbe solo qualora tenesse conto – compensandoli completamente in modo definitivo – degli accantonamenti scaglionati nel tempo contemplati dal piano di riequilibrio. Pertanto, secondo la Consulta non può essere assolutamente configurata la compatibilità di un avanzo di amministrazione con un piano di riequilibrio finanziario pluriennale.

Precisato l’errato contenuto della normativa censurato, l’errore dei giudici contabili risiede nel non aver minimamente spiegato in che modo il miglioramento dei conti dell’ente fosse incompatibile con la riformulazione del piano di riequilibrio, non potendo essere sufficiente a tal fine prospettare un vizio astratto della fattispecie legale senza un aggancio eziologico al caso concreto da decidere. Ne deriva un’insufficiente descrizione della fattispecie che, per costante giurisprudenza costituzionale, si traduce in un difetto di motivazione sulla rilevanza delle questioni sollevate, con conseguente inammissibilità delle stesse.

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