In assenza di un collusione tra il Sindaco e il responsabile finanziario, il rimborso delle spese di rappresentanza, asseritamente non pertinenti e quindi illegittime, liquidate dal responsabile finanziario non rientrano nelle ipotesi di peculato. Infatti, secondo la Cassazione (sentenza n.45512/2019) la richiesta di un rimborso, anche se non dovuto, non è condotta di per sé illecita, salvo che non vi siano anche ulteriori comportamenti quali l’utilizzazione di documentazione falsa per fare apparire rimborsabili spese che tali non solo. In questo caso, inoltre, le eventuali erronee valutazioni del responsabile finanziario sulla rimborsabilità di determinate spese non integrano di per sé condotta costituente peculato, quantomeno per insussistenza del relativo dolo che non è certo in re ipsa né si desume dal solo fatto dell’errore.
La vicenda
Il Sindaco di un comune e, al tempo stesso, anche deputato, chiedeva il rimborso delle spese sostenute per trasferte e rappresentanza al responsabile dei servizi finanziari che provvedeva alle relative liquidazioni. Secondo i fatti si trattava di varie ipotesi di rimborso in cui le attività per le quali veniva chiesto il pagamento o non erano riferibili all’interesse del Comune o, comunque, si trattava di spese che avrebbero dovuto essere rimborsate dalla Camera dei Deputati in ragione dell’attività parlamentare del Sindaco, ovvero di spese riferite a persone estranee agli interessi oltre che del Comune anche del Parlamento. A seguito di rinvio a giudizio del Sindaco e del responsabile finanziario, il giudice di primo grado aveva disposto l’assoluzione osservando che, pur se si era in presenza di spese non rimborsabili, i fatti non integravano il reato di peculato in quanto: a) il sindaco non aveva alcuna disponibilità del denaro dell’ente; chiedeva il rimborso nella veste di mero creditore, venendogli accordato; b) il funzionario che procedeva ai pagamenti non compiva una appropriazione del denaro ma disponeva dello stesso in violazione delle regole gestionali, causando un indebito vantaggio altrui: tale condotta al limite avrebbe potuto configurare il reato di abuso di ufficio, se del caso ormai prescritto. La sentenza veniva successivamente appellata dal PM tanto che la Corte di Appello, in riforma della sentenza di prime cure, ha dichiarato la sussistenza del reato di peculato sia a carico del Sindaco che del responsabile finanziario. Secondo i giudici di appello risponde di peculato il responsabile finanziario che in qualità di pubblico ufficiale “disonesto” ha effettuato il pagamento su somme non dovute, la stessa sorte attrae anche il Sindaco, in quanto chi pretende un rimborso non dovuto non può essere titolare di un diritto di credito e, avendo egli operato con il consenso del pubblico ufficiale disonesto risponde del medesimo reato di peculato. Per quanto riguarda, infatti, il responsabile finanziario la Corte di Appello ha ritenuto che egli aveva il dovere di rifiutare la richiesta, se relativa a spese non personali o non inerenti, mentre il metodico accoglimento delle richieste di rimborso indebito non può trovare giustificazione nell’errore, nella disattenzione, nella leggerezza del contabile.
In considerazione della sentenza di condanna, il Sindaco e il responsabile finanziario hanno presentato ricorso in Cassazione, anche alla luce delle assoluzioni disposte dalla Corte dei conti che, nell’accogliere solo parzialmente la richiesta di condanna per danno erariale, hanno escluso espressamente la condotta dolosa.
La decisione della Cassazione
Secondo i giudici di legittimità, il Tribunale di primo grado all’esito di una accurata istruttoria con audizione di 90 testimoni, pur ritenendo che non tutte le spese fossero direttamente ricollegabili all’ente o ai determinati eventi, ha fatto la semplice ma efficace considerazione che, in realtà, il sindaco non si “appropriava” ma si limitava a “chiedere”. In tale situazione, quindi, vista l’assenza di un previo accordo con il funzionario del Comune, che era colui che disponeva del denaro, non poteva ritenersi esservi un peculato. L’errore dei giudici di appello è quello di una riserva in termini assoluti del sindacato sulla ammissibilità del rimborso delle spese dei titolari di cariche pubbliche, mentre per il caso di consenso del pubblico ufficiale che paga il rimborso non dovuto, ha ritenuto erroneamente che si sia sempre in presenza del reato di peculato. Infatti, la sinteticità sul punto la sentenza di appello fa comprendere che il dolo sia “in re ipsa” o, comunque, che vada ritenuta la sostanziale punibilità a titolo di colpa non ammettendo l’errore (o la interpretazione diversa dalla propria) delle disposizioni amministrative che disciplinano i rimborsi in questione.
Al contrario della Corte di appello, i giudici del Tribunale di primo grado hanno effettuato una corretta valutazione dei fatti considerando che la richiesta di un rimborso, anche se non dovuto, non è condotta di per sé illecita, salvo che non vi siano anche ulteriori comportamenti quali l’utilizzazione di documentazione falsa per fare apparire rimborsabili spese che tali non solo. Inoltre, le eventuali erronee valutazioni dell’ufficiale pagatore sulla rimborsabilità di determinate spese non integrano di per sé condotta costituente peculato, quantomeno per insussistenza del relativo dolo che non è certo in re ipsa né si desume dal solo fatto dell’errore.
In conclusione vi sarebbe stato peculato, secondo la Cassazione, solo se si fosse dimostrata la presenza di un accordo specifico tra il Sindaco ed il responsabile dei servizi finanziari, cosa che nel caso di specie non è avvenuta.
In conclusione sia il Sindaco che il responsabile finanziario vanno assolti con formula piena.
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