In sede di ottemperanza una dipendente pubblica ha chiesto il pagamento della differenza retributiva dovuta a seguito di sentenza del giudice del lavoro, avendo indebitamente l’amministrazione applicato le ritenute IRPEF sull’importo stabilito dal giudice. Il Tribunale amministrativo di primo grado ha rigettato le ragioni della dipendente, ritenendo che, il risarcimento disposto dal giudice del lavoro, sulle mancate retribuzioni percepite per violazione dei contratti a termine, dovesse essere assoggettato a tassazione. Di avviso contrario il Consiglio di Stato (sentenza n.3429/2021), secondo il quale l’importo corrisposto al lavoratore, per effetto dell’abusiva reiterazione di contratti di lavoro a tempo determinato, ha natura risarcitoria (perdita di chance) e, come tale, non soggetto a tassazione in quanto estraneo al rapporto di lavoro.
La vicenda
Una dipendente pubblica ha chiesto al giudice amministrativo l’ottemperanza della sentenza del giudice del lavoro che ha stabilito un risarcimento del danno dovuto alla reiterazione illegittima dei contratti a termine, inopinatamente sottoposto a tassazione. I giudici di primo grado hanno dato ragione all’Amministrazione poiché, a loro dire, essendo stato il risarcimento quantificato in 8,5 mensilità dell’ultima retribuzione percepita dalla dipendente, la posta risarcitoria avrebbe natura di reintegrazione del danno conseguente alla perdita retributiva e, pertanto, da assoggettare a tassazione. La dipendente ha proposto ricorso in Consiglio di Stato, dolendosi dell’errore commesso dal giudice di primo grado per non aver considerato che, le somme percepite dal dipendente a titolo di risarcimento del danno cagionato dalla condotta del datore di lavoro pubblico non avrebbero dovuto essere sottoposte a tassazione, in quanto il danno risarcibile (ex art. 36, comma 5, D. Lgs. n. 165/01) non sarebbe un danno da mancata conversione del rapporto di lavoro, ma un danno da perdita di chance.
La riforma
Il ricorso della dipendente è stato ritenuto fondato. Infatti, a dire dei giudici amministrativi di appello, il giudice di legittimità ha in diverse occasioni precisato come “in materia di pubblico impiego privatizzato, il danno risarcibile di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, comma 5, non deriva dalla mancata conversione del rapporto, legittimamente esclusa sia secondo i parametri costituzionali che per quelli Europei, bensì dalla prestazione in violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori da parte della P.A., ed è configurabile come perdita di “chance” di un’occupazione alternativa migliore, con onere della prova a carico del lavoratore, ai sensi dell’art. 1223 c.c ” (tra le tante, Cass. n. 559/2021).
Il legislatore, nel caso di specie, ha previsto un risarcimento del danno, con esonero dell’onere probatorio del dipendente pubblico, nella misura pari ad un’indennità onnicomprensiva tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto (art. 28 L. n. 81/15). L’importo del risarcimento, una volta determinato secondo i criteri indicati nell’art. 8 L. 15 luglio 1966, n. 604 tra il suo valore minimo e massimo, avendo natura risarcitoria da perdita di chance, diviene estraneo ai rapporti di lavoro posti in essere nella legittima impossibilità di procedere alla loro conversione, e come tali, non assoggettabili a tassazione ex art. 6, comma 1 D.P.R. n. 917 del 1986 (tra le tante, Cass. n. 27011/2019).
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