Il riordino delle province: i contenuti del d.l. 188/2012, le criticità e i profili di illegittimità costituzionale

È stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 6 novembre 2012 il d.l. 5.11.2012, n. 188 “Disposizioni urgenti in  materia di province e città metropolitane”.

I contenuti del decreto legge

I punti essenziali sono:

  1. il numero delle province delle regioni a statuto ordinario si ridurrà da n. 86 a n. 51 (ivi comprese le città metropolitane)
  2. dal 1° gennaio prossimo le giunte delle province italiane saranno soppresse e il presidente potrà delegare l’esercizio di funzioni a non più di 3 consiglieri provinciali;
  3. vige il divieto di cumulo di emolumenti per le cariche presso gli organi comunali e provinciali;
  4. sono aboliti degli assessorati;
  5. gli organi politici devono avere sede esclusivamente nelle città capoluogo
  6. vengono dettate una serie di disposizioni transitorie e finali volte a regolare la fase dal 1° gennaio 2013 al 1° gennaio 2014, data di decorrenza degli effetti del riordino  delle province e dell’istituzione delle città metropolitane

Il riordino delle province

Il decreto legge, dopo aver ribadito all’art. 1, ai fini del riordino delle province, il riferimento ai requisiti minimi fissati dalla deliberazione del Consiglio dei Ministri (350.000 abitanti e 2.500 km²), all’art. 2 elenca le nuove province con efficacia dal 1° gennaio 2014.
Nelle nuove province diviene capoluogo di provincia il comune, tra quelli già capoluogo di provincia, avente maggior popolazione residente, salvo il caso di diverso accordo tra i medesimi comuni.

La denominazione delle nuove province rimane quella indicata nell’art. 2 del d.l. 188/2012 fatte salve possibili modifiche che vanno approvate con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri da adottarsi su proposta del consiglio provinciale deliberata a maggioranza assoluta dei propri componenti e sentita la regione.
Gli organi di governo delle province hanno sede esclusivamente nel comune capoluogo di provincia e non possono essere istituite sedi decentrate.
Per “organi i governo” si intendono il presidente della provincia ed il consiglio provinciale; non gli uffici.

Le funzioni delle province

L’art. 4, comma 1, lett. b) ha modificato il comma 10 dell’art. 17 del d.l. 95/2012 (spending review) che nella nuova formulazione, dopo aver previsto che “all’esito della procedura di riordino, sono funzioni delle province quali enti con funzioni di area vasta, ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione:

  1. pianificazione territoriale provinciale di coordinamento nonché tutela e valorizzazione dell’ambiente, per gli aspetti di competenza;
  2. pianificazione dei servizi di trasporto in ambito provinciale, autorizzazione e controllo in materia di trasporto privato, in coerenza con la programmazione regionale nonché costruzione, classificazione e gestione delle strade provinciali e regolazione della circolazione stradale ad esse inerente;
  3. programmazione provinciale della rete scolastica e gestione dell’edilizia scolastica relativa alle scuole secondarie di secondo grado

aggiunge che “nelle materie di cui all’articolo 117, commi terzo e quarto, della Costituzione, le regioni con propria legge trasferiscono ai comuni le funzioni già conferite alle province dalla normativa vigente salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, tali funzioni siano acquisite dalle regioni medesime. In caso di trasferimento delle funzioni ai sensi del primo periodo, sono altresì trasferite le risorse umane, finanziarie e strumentali. Nelle more di quanto previsto dal primo periodo le funzioni restano conferite alle province”.
Ciò significa che – fatte salve auspicabili modifiche durante la conversione in legge – la regione in tutte le materie di competenza (sia esclusiva che concorrente) dovrà disporre il trasferimento di tutte le funzioni oggi svolte dalle province ai comuni, o alla regione stessa, che non rientrano nelle funzioni fondamentali elencate dall’art. 17, comma 10.
Non è previsto un termine per l’approvazione della legge regionale.
Va ricordato però che l’art. 23 del d.l. 201/2011 (salva Italia) convertito in legge 214/2011, ancora in vigore, seppure non coordinato con le disposizioni intervenute successivamente, al comma 18 fissa il termine del 31 dicembre 2012 per le Regioni per disporre con propria legge il trasferimento delle funzioni, con la previsione dell’intervento sostitutivo dello Stato in assenza della decisione regionale.

Le città metropolitane

L’art. 5 modifica le disposizioni relative all’istituzione delle città metropolitane.
In particolare:

  1. viene anticipato al 30 settembre 2013 il termine per l’approvazione dello Statuto con la previsione, in caso di inutile decorso del termine, dello scioglimento del consiglio metropolitano e della nomina di un commissario con il compito di adottare lo Statuto;
  2. vengono ampliate le funzioni delle città metropolitane che comprenderanno:
  3. le funzioni fondamentali delle province (previste dall’art. 17 del d.l. 95/2012);
  4. pianificazione territoriale generale e delle reti infrastrutturali;
  5. strutturazione di sistemi coordinati di gestione dei servizi pubblici, nonché organizzazione dei servizi pubblici di interesse generale di ambito metropolitano;
  6. mobilità e viabilità;
  7. promozione e coordinamento dello sviluppo economico e sociale.
  8. tutte le altre funzioni oggi svolte dalle province.

la successione delle province

Dal 1° gennaio 2014, ogni nuova provincia istituita per effetto di accorpamento tra due o più province, succede a quelle ad essa pre-esistenti in tutti i rapporti giuridici e ad ogni altro effetto, anche processuale.
Con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, adottato sentita l’Unione delle province d’Italia (Upi), possono essere fissati criteri e modalità operative uniformi per la regolazione in sede amministrativa degli effetti della successione, anche con riguardo alla gestione delle risorse umane, finanziarie e strumentali.
Si tratta di una previsione solo eventuale e, pertanto, bisognerà comunque procedere a individuare le modalità della successione anche in assenza del decreto.

I dipendenti

L’art. 6 del d.l. 188/2012 richiama l’art. 31 del d.lgs. 165/2001 per disciplinare sia il passaggio dei dipendenti di ruolo delle province pre-esistenti a quelle nuove istituite a seguito degli accorpamenti sia per i processi di mobilità verso la Regione o i comuni a seguito del trasferimento delle funzioni.

In realtà il richiamo all’art. 31 – che disciplina le ipotesi di trasferimento o di conferimento di attività, svolte da pubbliche amministrazioni ad altri soggetti, pubblici o privati – è utile solo per ribadire il principio del mantenimento dei trattamenti economici e normativi previsti dai contratti vigenti (art. 2112 c.c.) nonché per individuare le procedure di informazione e di consultazione delle organizzazioni sindacali e dei dipendenti.
In ogni caso, decorsi trenta giorni dall’avvio dell’esame congiunto con le organizzazioni sindacali, in assenza dell’individuazione di criteri e modalità condivisi, le nuove province adottano gli atti necessari per il passaggio di ruolo dei dipendenti.
Per i restanti rapporti di lavoro in essere nelle province pre-esistenti (contratti a tempo determinato, contratti di collaborazione, etc.) le nuove province istituite subentrano nella titolarità dei rapporti fino alla prevista scadenza.
Le relative dotazioni organiche dovranno essere rideterminate tenendo conto dell’effettivo fabbisogno nonché delle previsioni del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, che dovrebbe essere emanato entro il 31 dicembre 2012, per stabilire i parametri di virtuosità per la determinazione delle dotazioni organiche degli enti locali, tenendo prioritariamente conto del rapporto tra dipendenti e popolazione residente, dopo aver individuato la media nazionale del personale in servizio presso gli enti, considerando anche le unità di personale in servizio presso le società a partecipazione pubblica locale totale o di controllo che sono titolari di affidamento diretto di servizi pubblici locali senza gara, ovvero che svolgono funzioni volte a soddisfare esigenze di interesse generale aventi carattere non industriale, né commerciale, ovvero che svolgono attività nei confronti della pubblica amministrazione a supporto di funzioni amministrative di natura pubblicistica.
Va ricordato che, a decorrere dalla data di efficacia del citato dpcm, gli enti che risultino collocati ad un livello superiore del 20 per cento rispetto alla media non possono effettuare assunzioni a qualsiasi titolo; gli enti che risultino collocati ad un livello superiore del 40 per cento rispetto alla media devono applicare le misure di gestione delle eventuali situazioni di soprannumero previste dall’articolo 2, comma 11, e seguenti, del d.l. 95/2012.
Per quanto riguarda il trasferimento del personale ad altri enti (regione o comuni) va ricordato che l’art. 4, comma 1, lett. b) del d.l. 188/2012 ha ribadito il principio secondo il quale “in caso di trasferimento delle funzioni, sono altresì trasferite le risorse umane, finanziarie e strumentali. Nelle more di quanto previsto dal primo periodo le funzioni restano conferite alle province”.
L’art. 17, comma 9, del d.l. 95/2012 prevede altresì che “La decorrenza dell’esercizio delle funzioni trasferite è inderogabilmente subordinata ed è contestuale all’effettivo trasferimento dei beni e delle risorse finanziarie, umane e strumentali necessarie all’esercizio delle medesime”.
L’attuazione delle procedure di trasferimento del personale ad altri Enti è pertanto subordinata all’individuazione e all’effettivo trasferimento dei beni e delle risorse finanziarie e strumentali connesse all’esercizio delle funzioni trasferite.
Fino al completamento della ricognizione e dell’effettivo trasferimento, le funzioni restano di competenza delle province, anche successivamente al 1° gennaio 2014.

Gli organi delle province

Il mandato degli organi di governo – presidente della provincia e consiglio provinciale –  cessa il 31 dicembre 2013.
Dal 1° gennaio 2013 la giunta provinciale è soppressa e le relative competenze sono svolte dal presidente della provincia, che può delegarle ad un numero di consiglieri provinciali non superiore a tre.
L’attribuzione al presidente delle competenze della giunta fa sì che gli attuali atti deliberativi collegiali si trasformeranno in atti monocratici (come nel caso delle gestioni commissariali).
Non è chiara la previsione secondo cui il presidente può delegare le competenze ad un numero di consiglieri non superiori a tre, in quanto non è precisato quale possa essere il contenuto della delega (la norma fa riferimento alle competenze della giunta svolte dal presidente che può delegarle ai consiglieri) e quali funzioni avrebbe il consigliere delegato.
Appare dubbio ritenere che gli eventuali tre consiglieri delegati parteciperebbero con il presidente ad un organo collegiale che delibera.
Sembra più ragionevole considerare che trattasi di “collaboratori” del presidente senza effettivo potere decisionale.
È auspicabile un chiarimento da parte del Governo
La data delle elezioni per la costituzione degli organi di tutte le province è fissata dal Ministro dell’interno in una domenica compresa tra il 1° e il 30 novembre dell’anno 2013.
Secondo quanto oggi previsto dall’art. 17 comma 12 del d.l. 95/2012, gli organi di governo della provincia sono esclusivamente il consiglio provinciale e il presidente della provincia eletti dagli organi elettivi dei comuni ricadenti nel territorio della provincia secondo le modalità stabilite dalla legge statale che dovrebbe essere approvata entro il 31 dicembre 2012 (art. 23, comma 16, del d.l. 201/2012).
Il relativo disegno di legge sulle modalità di elezione di “secondo grado” degli organi delle province, approvato dal Consiglio dei Ministri il 6 aprile 2012 è attualmente fermo in Commissione parlamentare e non si è ancora avviato l’esame.

Prossimi adempimenti

Entro il 30 aprile 2013 le province oggetto di riordino devono procedere alla ricognizione dei dati contabili ed economico-finanziari, del patrimonio mobiliare, incluse le partecipazioni, e immobiliare, delle dotazioni organiche, dei rapporti di lavoro e di ogni altro dato utile ai fini dell’amministrazione, a decorrere dal 1° gennaio 2014, delle nuove province istituite.
I risultati di tali adempimenti devono essere trasmessi, entro il medesimo termine, al prefetto della provincia che comprende il comune capoluogo di regione.
Decorso inutilmente il predetto termine, il prefetto, previa diffida ad adempiere nel termine di venti giorni dalla notifica della diffida medesima, nomina un proprio commissario che provvede in via sostitutiva.
Solo per l’anno 2013, le province oggetto di riordino devono approvare il bilancio di previsione improrogabilmente entro il 30 maggio 2013 senza che possa trovare applicazione l’eventuale differimento disposto per gli altri enti locali.
Decorso inutilmente il predetto termine, il prefetto, previa diffida ad adempiere nel termine di venti giorni dalla notifica, nomina un proprio commissario che provvede in via sostitutiva.
Il bilancio della nuova provincia dovrà essere approvato entro due mesi dall’insediamento dei nuovi organi unitamente alle misure necessarie a garantire la piena operatività con riferimento all’esercizio delle funzioni attribuite.

**********

Sono numerose le criticità che emergono dall’esame del decreto.
Queste le principali.

Il ricorso al decreto legge

Il Governo così giustifica la decretazione d’urgenza, tentando di dare copertura costituzionale al decreto legge che appare in palese contrasto con l’art. 77: “Considerata la straordinaria necessità ed urgenza, ai fini del contenimento della spesa pubblica e della razionalizzazione della pubblica amministrazione, di attuare quanto prefigurato dall’articolo 23, comma 15, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214 e dal citato articolo 17 del decreto-legge n. 95 del 2012 in ordine al nuovo ordinamento provinciale, anche al fine di ottemperare a quanto previsto dagli impegni assunti in sede europea, il cui rispetto è indispensabile, nell’attuale quadro di contenimento della spesa pubblica, per il conseguimento dei connessi obiettivi di stabilità e crescita”.
Le motivazioni addotte non reggono di fronte a semplicissime valutazioni:

  1. Non vi è alcun contenimento della spesa pubblica, come lo stesso Governo ha più volte sottolineato nelle relazioni illustrative che accompagnano i decreti legge;
  2. Non è pensabile introdurre con decretazione d’urgenza riforme ordinamentali;
  3. Non si comprende quali siano gli “impegni assunti in sede europea” che impongono il decreto;
  4. Non vengono indicati quali “obiettivi di stabilità e di crescita” verranno miracolosamente ottenuti con l’accorpamento delle province.

È utile ricordare i pareri al riguardo di due illustri costituzionalisti, già Presidenti della Corte Costituzionale.
Sostiene il prof. Valerio Onida: “Quanto alla natura dell’atto legislativo che conclude il processo di riordino, ai sensi dell’art. 17, comma 4, il riferimento ad un “atto legislativo di iniziativa governativa” fa pensare ad un disegno di legge presentato dal Governo alle Camere.  Non pare invece a chi scrive che possa trattarsi di un decreto legge (che peraltro non sarebbe un atto “di iniziativa governativa”, ma un atto legislativo del Governo).  E ciò sia per ragioni di coerenza sistematica, poiché le variazioni alle circoscrizioni provinciali sono disposte con “leggi della Repubblica” ai sensi dell’art. 133, primo comma della Costituzione – riserva che pare debba intendersi come riserva di legge formale – , sia perché le ragioni straordinarie di urgenza che hanno giustificato l’avvio con decreto legge del processo di riordino sarebbero assai più difficilmente invocabili per concludere il medesimo una volta che si sia giunti alla formulazione delle proposte”.
E il prof. Piero Alberto Capotosti: “È da chiedersi se il ricorso alla decretazione di urgenza, nel caso in esame, sia conforme all’art. 77 della Costituzione, nell’attuale interpretazione della giurisprudenza costituzionale sulla permanente rilevanza dei presupposti di necessità ed urgenza. Il dubbio si fonda sulla circostanza che con l’art. 17 si introduce un’autentica riforma di sistema, la cui straordinaria necessità ed urgenza di attuazione è molto difficile da dimostrare.
Nella specie, non sembra infatti individuabile “la preesistenza di una situazione di fatto comportante la necessità e l’urgenza di provvedere, tramite l’utilizzazione di uno strumento eccezionale, quale il decreto legge”, la cui mancanza, secondo la giurisprudenza costituzionale, costituisce appunto un vizio di costituzionalità del decreto (Corte costituzionale, sentenza n. 93 del 2011); vizio che, una volta intervenuta la legge di conversione, comporta un’illegittimità in procedendo della relativa legge (sentenza n. 128 del 2008). Si deve peraltro trattare, per essere rilevante, di un difetto dei presupposti “evidente” (sentenza n.171 del 2007).
Ma come non ritenere “evidente” tale difetto, considerando che il decreto introduce addirittura un’autentica riforma di sistema in materia di rilevanza costituzionale e che il relativo procedimento, che prevede una serie di interventi di determinati soggetti, si dovrebbe concludere con “un atto legislativo di iniziativa governativa” che è solo futuro ed eventuale nonché da adottare, in via di principio, una volta esplicati tutti gli adempimenti dell’articolato procedimento previsto?
In definitiva – conclude il prof. Capotosti -, sussistono forti perplessità, sul piano dei vizi formali di legittimità costituzionale, che la disciplina de qua possa costituire oggetto di un decreto-legge”.

La concertazione

Nella relazione illustrativa del decreto si legge:
“L’iter di riordino previsto dall’articolo 17 su indicato ha stabilito un percorso concertato con le autonomie locali nel rispetto del quadro costituzionale di riferimento e della leale collaborazione istituzionale. Le specifiche scelte volte a concretizzare il riordino dei singoli territori sono state demandate ai Consigli delle autonomie locali di ogni regione o ad analoghi organi di raccordo e alle regioni medesime”.
La realtà è ben diversa.
La concertazione con Regioni e autonomie locali è stata soltanto formale.
È sufficiente ricordare i ripetuti interventi sulla stampa del Ministro Patroni Griffi, di molto anteriori alla scadenza del termine fissato per la formulazione delle proposte di riordino da parte delle Regioni in cui affermava: “La nuova cartina delle province italiane è agli ultimi ritocchi: arriverà con un decreto legge all’esame del primo Consiglio dei ministri di novembre. Una mappa che mette insieme le proposte che stanno arrivando in queste ore dalle Regioni. E che respinge le tante richieste di deroga, applicando senza sconti le regole fissate con la legge sulla spending review: le province che hanno meno di 350 mila abitanti o un’estensione inferiore ai 2.500 chilometri quadrati dovranno essere accorpate con quelle vicine”.
Così puntualmente è avvenuto, dimostrando l’inutilità della procedura “concertativa”.
Questo atteggiamento è ancor più dimostrato dalle decisioni assunte per le province del Lazio e della Calabria.
L’art. 17, comma 4, del decreto spending review prevede: “Se alla data di cui al primo periodo (23 ottobre 2012) una o più proposte di riordino delle regioni non sono pervenute al Governo, il provvedimento legislativo è assunto previo parere della Conferenza unificata, che si esprime entro dieci giorni esclusivamente in ordine al riordino delle province ubicate nei territori delle regioni medesime”.
Ebbene il Governo ha comunque disposto con decreto legge il “riordino” delle province di Calabria e Lazio, senza ottemperare a quanto previsto dalla norma, dando semplicemente atto che: “All’esito della procedura non hanno avanzato alcuna proposta di riordino la Calabria e il Lazio; di conseguenza, per tali regioni occorrerà chiedere il parere in sede di Conferenza Unificata riguardo al riordino delle relative province”.
Non si poteva attendere l’acquisizione del parere prima dell’emanazione del decreto legge? Sussiste un’urgenza tale da non poter far trascorrere qulache giorno?
È evidente piuttosto che il Governo intendeva procedere prescindendo del tutto dalla volontà dei territori.
E così ha fatto.
Altrettanto incomprensibile la decisione di disporre nell’immediato il mutamento di circoscrizione provinciale di appartenenza di alcuni comuni limitatamente alla regione Puglia, per poi affermare nella relazione illustrativa che “in sede di conversione del presente decreto legge si terrà conto di ulteriori iniziative assunte da altri comuni ai sensi dell’articolo 133, primo comma, della Costituzione,  sentite le Regioni interessate”.
Altre regioni, tra cui il Veneto, avevano trasmesso le deliberazioni di comuni, adottate conformemente a quanto previsto dagli art. 17 e 18 del decreto legge sulla spending review, riferite a comuni facenti parte della provincia di Venezia, destinata ad essere trasformata in Città metropolitana, ignorate dal Governo, forse per la fretta di provvedere.
Un esame più attento, più concertato, con qulache settimana in più di tempo, che gravi dissesti finanziari avrebbe determinato?
Se gli effetti del grande “riordino” si determinano dal 1° gennaio 2014, quale fretta c’era ad emanare un decreto legge non coordinato e condiviso?

Le città metropolitane

Ulteriore dimostrazione del totale dispregio delle Autonomie è data dalle decisioni sulle città metropolitane.
L’art. 18, comma 2, del decreto spending review prevede: “Il territorio della città metropolitana coincide con quello della provincia contestualmente soppressa, fermo restando il potere dei comuni interessati di deliberare, con atto del consiglio, l’adesione alla città metropolitana o, in alternativa, a una provincia limitrofa ai sensi dell’articolo 133, primo comma, della Costituzione”.
La legge dunque aveva chiaramente indicato una scelta: le città metropolitane dovevano coincidere con la provincia soppressa e ai comuni facenti parte dell’istituenda città metropolitana – a differenza di tutti gli altri comuni cui tale facoltà era preclusa – era attribuita la facoltà di deliberare l’adesione alla città metropolitana e ad una provincia limitrofa, anche successivamente al 20 luglio, data di adozione della delibera del consiglio dei ministri che ha fissato i requisiti di superficie e popolazione delle nuove province.
Scelta questa chiaramente confermata dall’art. 17, comma 1, dello stesso decreto legge 95/2012 allorchè ha escluso dal riordino le province che, pur non avendo i requisiti minimi, sono confinanti solo con province di regioni diverse da quella di appartenenza e con una delle province destinate a diventare città metropolitane.
Il caso evidente è quello della provincia di La Spezia che, pur non avendo i requisiti minimi, è stata mantenuta in quanto la norma escludeva l’accorpamento con la città metropolitana di Genova.
Proprio sulla base di tali disposizioni di legge sono state formulate le ipotesi di riordino dei CAL e le proposte di riordino delle regioni.
E soprattutto sulla base di tali considerazioni i comuni hanno deliberato la loro volontà di aderire alla città metropolitana o ad una provincia limitrofa.
Niente di tutto questo.
Il decreto legge sul riordino smentisce tali disposizioni:
L’art. 5 del d.l. 188/2012 sul riordino prevede infatti:

  1. La città metropolitana di Milano comprende altresì il territorio già appartenente alla provincia di Monza e della Brianza;
  2. la città metropolitana di Firenze comprende altresì il territorio già appartenente alla provincia di Prato e alla provincia di Pistoia.

E il vincolo insuperabile che vietava l’accorpamento di province con le nuove città metropolitane? Svanito nel nulla.
È questo il percorso concertato enunciato dal Governo con le Autonomie Locali, che cambia le regole in corsa, che smentisce le stesse norme che dovevano regolare le proposte di riordino?

Il consiglio metropolitano

Continua il taglio degli organi rappresentativi.
Adesso il nuovo decreto prevede che il consiglio metropolitano deve essere composto da non puiù di dieci componenti a prescindere dalla popolazione della città metropolitana.
Evidentemente il numero di sedici(!) previsti per le città metropolitane con popolazione superiore ai tre milioni di abitanti è parso eccessivo al Governo.
Ma quale rappresentanza democratica potrà essere assicurata in questo modo?

Gli organi delle province

Il decreto legge prevede che gli organi delle province e gli eventuali commissari nominati (per scadenza naturale del mandato, per scadenza del precedente commissariamento o per altri casi di cessazione anticipata del mandato) cessano il 31 dicembre 2013.
Per la giunta è prevista la soppressione a decorrere dal 1° gennaio 2013 e le relative competenze sono svolte dal presidente della provincia che può delegarle ad un numero di consiglieri non superiore a tre.
Tutto ciò a prescindere dalla data di scadenza naturale del mandato elettivo degli organi in carica.
Viene così di fatto, in assenza di esplicita abrogazione, superata la previsione dell’art. 23, comma 20 del decreto “salva Italia” che prevede: “Gli organi provinciali che devono essere rinnovati successivamente al 31 dicembre 2012 restano in carica fino alla scadenza naturale”.
Al riguardo va sempre ricordato che il comma 20 venne riformulato in sede di conversione in legge del d.l. 201/2011 che nella formulazione originaria prevedeva:  “Con legge dello Stato è stabilito il termine decorso il quale gli organi in carica delle province decadono”, a seguito di fondate obiezioni, anche da parte della Presidenza della Repubblica, sulla legittimità costituzionale della decadenza anticipata di organi democraticamente eletti.
Il disegno di legge sulle modalità di elezione di “secondo grado” degli organi delle province, approvato dal Consiglio dei Ministri il 6 aprile 2012 è fermo in Commissione Parlamentare e non si è ancora avviato l’esame.
La Corte Costituzionale, chiamata a pronunciarsi nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 1, 2, 3 e 4 della legge della Regione Sardegna 1° luglio 2002, n. 10, recante “Adempimenti conseguenti alla istituzione di nuove province, norme sugli amministratori locali e modifiche alla legge regionale 2 gennaio 1997, n. 4”, promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, nella sentenza n. 48 del 10 febbraio 2003, accogliendo del ricorso del Governo, ha affermato principi chiarissimi al riguardo, su cui si fonda il principio della rappresentanza democratica
Nella sentenza si legge:
“Tra i principi che si ricavano dalla stessa Costituzione vi è certamente quello per cui la durata in carica degli organi elettivi locali, fissata dalla legge, non è liberamente disponibile nei casi concreti.
Vi è un diritto degli enti elettivi e dei loro rappresentanti eletti al compimento del mandato conferito nelle elezioni, come aspetto essenziale della stessa struttura rappresentativa degli enti, che coinvolge anche i rispettivi corpi elettorali.
Un’abbreviazione di tale mandato può bensì verificarsi, nei casi previsti dalla legge, per l’impossibilità di funzionamento degli organi o per il venir meno dei presupposti di “governabilità” che la legge stabilisce (cfr. ad es. gli artt. 53 e 141, comma 1, lettere b e c, del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali approvato con il d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267), ovvero in ipotesi di gravi violazioni o di gravi situazioni di pericolo per la sicurezza pubblica che la legge sanzioni con lo scioglimento delle assemblee (cfr. ad es. l’art. 141, comma 1, lettera a, e l’art. 143 del citato testo unico).
Tuttavia le ipotesi eccezionali di abbreviazione del mandato elettivo debbono essere preventivamente stabilite in via generale dal legislatore.
Tra di esse non è escluso che possa ricorrere anche il sopravvenire di modifiche territoriali che incidano significativamente sulla componente personale dell’ente, su cui si basa l’elezione: come, ad esempio, prevede per il caso degli organi comunali l’art. 8, quarto comma, lettera a, del d.P.R. 16 maggio 1960, n. 570 (non compreso nell’abrogazione espressa disposta dall’art. 274, comma 1, lettera e, del testo unico n. 267 del 2000), secondo cui si procede alla rinnovazione integrale del consiglio comunale quando, per effetto di una modificazione territoriale, si sia verificata una variazione di almeno un quarto della popolazione del comune.
Ma, ancora una volta, una siffatta ipotesi dovrebbe essere prevista e disciplinata in via generale dalla legge, ovviamente sulla base di presupposti non irragionevoli.
In ogni caso, non può essere una legge provvedimento, disancorata da presupposti prestabiliti in via legislativa, a disporre della durata degli organi eletti.
Proprio questa, invece, è la portata della norma qui impugnata. Essa, nel prevedere che si proceda all’elezione degli organi delle nuove province, stabilisce altresì che decadano di diritto quelli delle province preesistenti, nel logico presupposto che non possa darsi una doppia contemporanea rappresentanza, nell’ambito di organi elettivi preesistenti e di organi di nuova elezione, delle popolazioni dei territori oggetto della variazione territoriale.
Tuttavia, tale previsione di abbreviazione del mandato degli organi delle province preesistenti (eletti solo tre anni fa) non trova supporto in alcuna disciplina a carattere generale che la contempli e ne precisi i presupposti.
Ora, nella legislazione statale sulle province l’ipotesi di una abbreviazione del mandato degli organi provinciali a seguito di variazioni territoriali non è contemplata (l’art. 8, quarto comma, lettera a, del d.P.R. n. 570 del 1960 si riferisce infatti ai soli consigli comunali): gli unici casi di scioglimento anticipato sono quelli previsti dai citati articoli 53, 141 e 143 del testo unico approvato con il d.lgs. n. 267 del 2000.
Tant’è che in tutti i provvedimenti legislativi con cui sono state istituite nuove province fuori del territorio delle Regioni speciali, e in particolare in occasione della istituzione di otto nuove province attuata ai sensi dell’art. 63 della legge 8 giugno 1990, n. 142, si è invariabilmente previsto che l’elezione dei nuovi consigli avesse luogo nel successivo turno generale delle consultazioni amministrative (pur mancando, all’epoca, ancora un triennio a tale data), cioè alla scadenza naturale dei consigli preesistenti, salva l’ipotesi di scioglimento anticipato di questi ultimi per altra causa (cfr. l’art. 3, comma 2, dei decreti legislativi 6 marzo 1992, nn. 248, 249, 250, 251, 252, 253, 254, e del d.lgs. 30 aprile 1992, n. 277).
La norma impugnata, intervenendo solo sull’elezione, in questa unica occasione, degli organi delle nuove province e di quelle preesistenti – dunque con la tecnica della legge provvedimento -, dispone invece che tale elezione avvenga anticipando “di diritto” il termine del mandato degli organi già eletti: con ciò ponendosi in contraddizione con i principi che si sono sopra delineati circa le garanzie costituzionali del mandato degli organi elettivi locali”.
Non credo sia necessario aggiungere altre considerazioni rispetto all’inequivocabile motivazione della Corte Costituzionale.

Le funzioni delle province

Non appagato dalla confusione istituzionale che determinerà il “riordino”, l’art. 4 del decreto legge prevede: “Nelle materie di cui all’articolo 117, commi terzo e quarto, della Costituzione, le regioni con propria legge trasferiscono ai comuni le funzioni già conferite alle province dalla normativa vigente salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, tali funzioni siano acquisite dalle regioni medesime. In caso di trasferimento delle funzioni ai sensi del primo periodo, sono altresì trasferite le risorse umane, finanziarie e strumentali. Nelle more di quanto previsto dal primo periodo le funzioni restano conferite alle province”.
In dispregio ancora una volta delle autonomie, in palese contraddizione con la stessa scelta di mantenere un livello intermedio di amministrazione tanto da far affermare al Governo nella relazione illustrativa che: “La riforma delle province, nel suo complesso, dà attuazione al Titolo V, Parte II, della Costituzione, rendendo la loro dimensione territoriale più adeguata alla particolare connotazione quale ente di area vasta”, con decreto legge si viola palesemente l’art. 118 della Costituzione.
Lo stesso Governo nel comunicato stampa afferma: “La riforma si ispira ai modelli di governo europei. In tutti i principali Paesi Ue, infatti, ci sono tre livelli di governo. Il provvedimento consente inoltre una razionalizzazione delle competenze”.
Nei fatti, il Governo pretende di imporre alle Regioni, anche nelle materie di competenza regionale, di attribuire ai comuni o di acquisire tutte le funzioni amministrative, senza alcuna possibile valutazione di merito sull’ambito ottimale di gestione delle funzioni sovracomunali.
Così contemporaneamente si violano i principi costituzionali che vedono nella Regione un Ente con potestà legislativa e comuni, province e Città metropolitane, come enti titolari di funzioni amministrative proprie e conferite con legge statale o regionale secondo le rispettive competenze (art. 118, comma 2, Costituzione).
Non è tollerabile che si pretenda di riformare il nostro ordinamento con proclami, atti di forza e violazione dei principi costituzionali, quando appare necessario un percorso di riforme condivise, non conflittuali, che riportino fiducia nelle Istituzioni.
Né si può pensare di cogliere la triste e deprecabile occasione fornita dai recenti scandali per accelerare riforme che – come prefigurate – non produrranno alcun beneficio.
Bisogna innanzitutto delimitare gli spazi d’azione della pubblica amministrazione, semplificare e disboscare tutti quegli ambiti di intervento nei quali non ha senso né utilità l’intervento pubblico come oggi esistente, che può rappresentare soltanto un appesantimento di procedure e costi senza benefici.
Quindi va individuato l’ambito territoriale ottimale e il livello di governo migliore per l’esercizio delle funzioni, individuando con chiarezza ed univocità chi fa cosa, per chiarezza, semplificazione ed individuazione certa delle responsabilità.
Un adeguato ed efficace sistema di controlli garantisce la correttezza della gestione.
Il nostro ordinamento è ancora basato su un sitema costituzionale?

Conclusioni

Il d.l. aggiunge ulteriori elementi di caos istituzionale rispetto a quanto già determinato con i decreti “salva Italia” e “spending review”.
Non v’è dubbio sulla necessità di una riforma organica del sistema organizzativo della Repubblica; non sussistono dubbi che nell’attuale situazione economica, politica e sociale, non vi è più spazio per la difesa di posizioni consolidate, a tutti i livelli.
La fortissima critica alle decisioni del Governo muove da alcune evidenti costatazioni:

  1. L’assoluta disorganicità dell’intervento sulle province avulso da una riforma organica;
  2. La pervicacia del Governo nel volere intervenire su accorpamenti e tagli del numero di province senza partire dal riassetto delle funzioni e dei servizi sul territorio;
  3. La totale indifferenza del Governo rispetto alle richieste dei territori;
  4. La palese violazione dei principi costituzionali.

Il segno tangibile dell’approfondimento e del rispetto dei territori che emerge da questo decreto legge appare in tutta la sua chiarezza dalla conferenza stampa di presentazione.
I Ministri dell’interno e della pubblica amministrazione presentano una mappa delle nuove province, probabilmente rimaneggiata pochi istanti prima, che cancella alcuni confini provinciali con l’ausilio della scolorina o di bianchetto, a testimoniare quanta riflessione e quanto approfondimento vi siano a supporto di una riforma che modifica l’assetto territoriale, secoli di storia e l’ordinamento costituzionale.
Il segno di una riforma affrettata che richiederebbe maggiori approfondimenti sugli effetti che produrrà sull’efficienza dei servizi, sulle risorse, sull’attribuzione ottimale delle competenze.

di Carlo Rapicavoli

Fonte: Gazzetta degli Enti locali

© RIPRODUZIONE RISERVATA