di Gianni Trovati
L’Italia allegra delle quote latte e dei fondi europei dispersi si scopre più realista del Re proprio nei mesi della crisi peggiore del Dopoguerra. E con una serie di obblighi informativi legati al Registro nazionale degli aiuti di Stato finisce per inceppare la macchina degli interventi comunali a supporto di imprese e partite Iva. Obblighi, qui è il punto, che si è deciso di introdurre andando assai oltre la lettera, e soprattutto lo spirito, delle regole costruite a Bruxelles con il modello di Temporary Framework che ha aperto le porte all’intervento dello Stato nell’economia. Ma andiamo con ordine.
Le modifiche al quadro regolatorio introdotte a livello comunitario per contrastare la crisi permettono interventi a favore delle imprese fino a 800mila euro (con limiti ridotti a 120mila euro nella pesca e a 100mila in agricoltura). Il decreto di maggio (Dl 34/2020), con gli articoli dal 54 al 60, ha dettagliato gli strumenti con cui le Regioni e gli enti locali possono agire per sostenere gli operatori economici del territorio. L’intenzione, a Bruxelles come a Roma, era evidentemente quella di liberare dai vincoli l’intervento pubblico diretto a evitare che i colpi della crisi fossero irreparabili per le aziende in difficoltà.
Roma però è più grande di Bruxelles. E meno coordinata. Gli obiettivi politici spesso si perdono nel fitto reticolo dei suoi uffici. E da lì nascono le storie che offrono argomenti infiniti ai detrattori della «burocrazia». Storie come quella degli aiuti di Stato.
Perché per non superare il limite degli 800mila euro (o quelli più ridotti per agricoltura e pesca) serve un controllo. Affidato al Registro nazionale degli aiuti di Stato.
A Palazzo Chigi, o meglio nell’immobile a fianco dove sopra la Galleria intitolata ad Alberto Sordi albergano gli uffici del Dipartimento delle Politiche europee della presidenza del Consiglio, si è pensato così di imporre agli enti locali di registrare tutti gli aiuti concessi a ogni singolo beneficiario. Un caos, soprattutto per i tanti Comuni medi e piccoli nei quali il personale ridotto all’osso ha ben altri problemi da affrontare. Con il risultato che spesso, per evitare i rischi e le responsabilità che si incontrano quando ci si addentra in quel labirinto, le amministrazioni hanno finito per accantonare le intenzioni iniziali di aiutare le imprese del territorio.
Ma c’è di più. Perché gli obblighi di registrazione pensati per costruire il censimento più minuzioso d’Europa sull’intervento pubblico in economia non si fermano nemmeno quando l’aiuto, sotto forma di sconto o esenzione dai tributi locali, deriva direttamente da una legge statale. Per esempio: Governo e Parlamento decidono di cancellare l’Imu 2020 per gli alberghi. Ma è il Comune a dover registrare l’aiuto. Ammesso, e non concesso, che sia in grado di farlo, perché i modelli F24 con cui si paga l’Imu non descrivono l’imposta immobile per immobile ma riportano solo la somma complessiva pagata dal proprietario (e per di più con lo stesso codice tributo).
A completare il quadro dei paradossi c’è l’importo medio degli aiuti comunali, che in genere possono scontare qualche centinaio di euro (qualche migliaio nei casi più pesanti) a titolo di Imu, Tari o di tasse e canoni per l’occupazione di suolo pubblico. Ma siccome un lungo cammino inizia sempre con un piccolo passo, anche queste somme modeste possono far sforare i tetti alle imprese che ricevono sostegni più consistenti da altri livelli di governo.
Per sbloccare l’empasse i Comuni chiedono l’esclusione dei loro interventi, autonomi o imposti da leggi statali, dal calcolo degli aiuti. Ma fin qui il governo ha resistito, e la disciplina del registro nazionale non si sblocca. E intanto la crisi continua a mordere.
Rassegna stampa in collaborazione con Mimesi s.r.l.
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento