La consulenza fiscale quale supporto specialistico può essere giustificata nella fase iniziale, diventa invece foriera di danno erariale qualora la stessa sia protratta nel tempo, venendo meno in questo caso i presupposti legali del conferimento. La Corte dei conti, Sezione II° giurisdizionale di Appello (sentenza n.207/2020) ha da un lato confermato la responsabilità amministrativa del dirigente finanziario, ma ha dall’altro lato riformato in parte la sentenza di primo grado che non aveva coinvolto la responsabilità omissiva dell’Organo di revisione contabile dell’ente che, pur a conoscenza dei continui incarichi conferiti contra legem nulla ha evidenziato in merito alla illegittimità degli stessi.
La vicenda
Il dirigente dell’Unità finanziaria complessa di una Azienda Ospedaliera ha disposto in diversi anni, confermando la consulenza in modo generico di “assistenza in materia fiscale e tributaria” a un libero professionista. Avverso al condanna della Corte dei conti in primo grado, il dirigente ha proposto appello evidenziando la maggiore corresponsabilità di altri dirigenti e del Collegio sindacale che nulla hanno evidenziato in merito all’illegittimità della scelta operata. In particolare, ha lamentato il ruolo centrale dell’organo di revisione contabile, non solo per la mancata formulazione del benché minimo rilievo sulle delibere di incarico, ma anche per averle sostanzialmente avallate, addirittura con la richiesta al consulente di “una relazione di controllo prima di sottoscrivere le dichiarazioni” di competenza dello stesso organo sindacale. In ogni caso, si difende il dirigente, non potrebbe attribuirsi una colpa grave, neppure in ordine alla mancata verifica delle professionalità interne, giacché tale preventiva ricognizione avrebbe dovuto essere assicurata dal direttore generale.
Le indicazioni dei giudici contabili di appello
Il Collegio contabile di appello ha evidenziato in via preliminare la normativa sulle consulenze esterne degli enti pubblici, richiamando la disciplina prevista dall’art. 7, comma 6, del d.lgs. 30 marzo 2011, n. 165. I merito ai presupposti per poter ricorrere a consulenze esterne, i giudici contabili si sono espressi precisando che la disciplina legislativa si inserisce in un contesto nel quale le amministrazioni pubbliche hanno l’obbligo di svolgere i compiti istituzionali avvalendosi di personale interno, essendo questa la regola cardine attraverso cui trova espressione il principio costituzionale di buon andamento dell’azione amministrativa anche, e soprattutto, sotto il profilo della sua economicità. In altri termini, gli incarichi di consulenza a soggetti esterni possono sì rappresentare un’opzione operativa percorribile, ma a condizione che ricorrano specifiche situazioni, ovvero: la carenza organica, accertata attraverso una reale ricognizione delle professionalità in servizio, che impedisca, o renda oggettivamente difficoltoso, l’esercizio di una determinata funzione; la complessità dei problemi da risolvere, che richiedano conoscenze ed esperienze eccedenti le normali competenze del personale interno; l’indicazione specifica dei contenuti e dei criteri per lo svolgimento dell’incarico e la sua durata; la proporzione fra il compenso corrisposto al soggetto incaricato e l’utilità conseguita dall’Amministrazione. Inoltre, è stato rimarcato come tali condizioni, che per la giurisprudenza citata costituiscono altrettanti presupposti di legittimità, non solo devono coesistere, ma devono anche essere logicamente esplicitati nel provvedimento amministrativo di conferimento, in quanto indefettibilmente concorrenti a costituirne il supporto motivazionale. Nel caso di specie, i giudici contabili di appello hanno confermato come, la consulenza deliberata non fosse conforme ai presupposti di legittimità sopra enunciati. In primis le funzioni conferite al professionista sono state semplicemente descritte in termini di generica “assistenza fiscale”, un’indicazione, dunque, all’evidenza tanto ampia da comportare la palese inosservanza del requisito che, invece, vede nella specifica indicazione dei compiti oggetto d’incarico un imprescindibile elemento di legittimità. In altri termini, in ragione della mancata perimetrazione delle funzioni consulenziali, quindi l’assenza di un parametro di confronto con le professionalità interne, ha reso di fatto agevolmente eludibile il dovere di compiere una preventiva ricognizione all’interno dell’ente al fine di individuare, tra i dipendenti in servizio, quanto avrebbero potuto assicurare le stesse funzioni conferite all’esterno dell’amministrazione. Pur potendo considerare giustificati l’incarico al professionista durante le fasi iniziali del rapporto professionale, in cui l’organizzazione interna non si era ancora dotata di adeguate professionalità per cui si rendeva necessario un affiancamento formativo dei dipendenti in servizio ad opera di un professionista esperto, la stessa giustificazione non avrebbe più avuto ragion d’essere negli anni successivi. Nel caso di specie, infatti, la collaborazione con il professionista esterno si è protratta, praticamente senza soluzione di continuità, per circa dieci anni. Questo aspetto indubbiamente denota un evidente contrasto con il modello delineato dal legislatore in materia di conferimento di incarichi esterni, quello cioè di prevedere il ricorso alle professionalità esterne come uno strumento sì ammissibile, ma a condizione che il suo impiego non perda le caratteristiche dell’eccezionalità rispetto all’ordinario svolgimento delle funzioni istituzionali per mezzo della propria organizzazione interna.
La responsabilità del Collegio sindacale
Nel confermare i giudici di appello la sentenza di condanna di primo grado in merito all’illiceità d’incarico esterno, si discostano dalla sentenza di primo grado in merito all’apporto causale del Collegio dei revisori dei conti. Il Collegio contabile di appello, richiama a tal proposito l’art. 2403 c.c. sul dovere che compete a tale organo di controllare e di vigilare sull’osservanza della legge, per agevolmente intuire come tale organo abbia nel caso di specie inciso sulla produzione del danno. Infatti, dalla documentazione in atti emerge che le delibere di incarico erano state tutte regolarmente inviate al collegio dei sindaci. In merito alle delibere ricevute, l’organo di revisione si è limitato a prendere semplicemente atto delle motivazioni addotte dal proponente e, successivamente ai rilievi formulati dalla Corte dei conti in sede di controllo, avrebbero osservato che l’attività svolta dal consulente avrebbe potuto “non configurarsi come mera consulenza ma come prestazione di servizio”. La posizione, quindi, dell’organo di revisione contabile appare gravemente omissiva rispetto al dovere di vigilanza sull’operato dell’amministrazione e deve, pertanto, ritenersi in palese contrasto col modello delineato dalla disciplina codicistica in materia. Pertanto, a differenza dei giudici di primo grado, non può non considerarsi sussistente il concorso causale al danno da parte del collegio sindacale, anche in virtù della ragionevole deduzione che se fossero stati per tempo rilevati gli evidenti profili di illegittimità, soprattutto in occasione dei primi incarichi, l’azienda ospedaliera avrebbe verosimilmente potuto effettuare diverse e più virtuose scelte gestionali al riguardo.
Per tenere conto di tale apporto causale alla produzione del danno erariale da parte del Collegio dei sindaci, non essendo questi ultimi chiamati in giudizio, la responsabilità erariale del convenuto deve, quindi, essere ridotta del 10%.
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