Buoni pasto

28 Marzo 2013
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La normativa di cui all’art. 5, comma 7, del d.l. n. 95/2012 deve ritenersi applicabile anche alla fattispecie del servizio sostitutivo di mensa mediante buoni pasto elettronici. Inoltre, anche il limite previsto dalle citate disposizioni, le quali fissano a 7 euro il valore nominale massimo dei buoni da attribuire al personale deve ritenersi parimenti applicabile.
Lo ha stabilito la deliberazione della Corte dei conti, sezione di controllo per il Friuli Venezia Giulia, n. 1/2013/PAR dell’8.1.2013.
Un comune ha rivolto una richiesta alla Corte, sez. di controllo per la regione Friuli volta a conoscere se le norme introdotte con l’art. 5, comma 7, del d.l. n. 95/2012, come convertito in legge n. 135/2012, siano da ritenersi applicabili alla fattispecie del servizio sostitutivo di mensa mediante buoni pasto elettronici e se a tale fattispecie risulti altresì applicabile il limite ivi previsto, che fissa a 7 euro il valore nominale dei buoni pasto attribuiti al personale.
Si rammenta che la disposizione sopra menzionata prevede che “A decorrere dal 1° ottobre 2012 il valore dei buoni pasto attribuiti al personale, anche di qualifica dirigenziale, delle amministrazioni pubbliche […] non può superare il valore nominale di 7 euro. Eventuali disposizioni normative e contrattuali più favorevoli cessano di avere applicazione a decorrere dal 1° ottobre 2012”.
La contrattazione collettiva della regione Friuli prevede due modalità alternative per assicurare la mensa ai dipendenti:

  1. attraverso l’istituzione di una mensa di servizio, che a sua volta può essere gestita direttamente dall’ente, ovvero da terzi mediante convenzione;
  2. attraverso l’attribuzione ai dipendenti di buoni pasto, per l’appunto qualificati “sostitutivi del servizio mensa”.

Attraverso il ricorso alla prima delle due alternative, viene in sostanza attivato dall’ente un servizio a favore del dipendente, il quale, coerentemente, sarà tenuto a pagare, per ogni pasto fruito, un corrispettivo, in una misura predefinita, modulata diversamente a seconda che la mensa sia gestita direttamente dall’ente ovvero attribuita in convenzione a terzi.
Laddove, invece, l’ente si limiti ad attribuire al dipendente esclusivamente un valore da spendere in esercizi convenzionati, evidentemente non si tratterà di un corrispettivo, ma di un vero e proprio “costo” sostenuto dall’ente datoriale.
Nel concreto, il comune ha posto in essere una forma organizzativa che rientra in quella esposta al punto 1), avendo provveduto ad affidare il servizio mensa in convenzione a terzi ed avendo, di conseguenza, dotato il personale avente diritto di apposite card elettroniche, funzionali a consentire la fruizione delle tipologie di pasto tipizzate.
Il comune, a sostegno delle perplessità avanzate circa l’applicabilità della normativa vincolistica recata dal comma 7 dell’art. 5 del d.l. 95/2012, il comune ha citato quanto affermato dall’Agenzia delle Entrate (risoluzione n. 63/E del 17.5.2005) che, nella materia specifica dei buoni pasto elettronici ha precisato che le “card […] non rappresentano titoli di credito, ma consentono unicamente di individuare il dipendente che quel giorno ha diritto a ricevere la somministrazione del pasto…nei confronti del dipendente la carta assume la funzione di rappresentare esclusivamente il pasto cui il soggetto ha diritto e non il corrispondente valore monetario […].Dalla funzione attribuita alle card elettroniche, di mero strumento identificativo dell’avente diritto, deriva che le stesse non sono assimilabili ai ticket restaurant, ma piuttosto ad un sistema di mensa aziendale, che può essere definita diffusa”.
La Corte ha precisato che la risposta al quesito non può prescindere da alcune preliminari precisazioni, che riguardano la corretta individuazione della natura giuridica del buono pasto.
Tale natura è differente a seconda che la si consideri in relazione alla posizione del
soggetto beneficiario o dell’ente erogante.
Con riferimento alla posizione del dipendente, assumono importanza le previsioni del d.P.R. n. 917 del 22 dicembre 1986 (testo unico delle imposte sui redditi – t.u.i.r.), che all’art. 51, comma 2, lett. c), ha stabilito che il buono pasto non concorre a costituire reddito da lavoro dipendente, qualora la somma erogata giornalmente sia inferiore ad euro 5,29, mentre, per la quota eccedente tale valore, lo stesso è assoggettato a imposizione, come ogni altro reddito da lavoro dipendente.
Differente ordine di considerazioni deve articolarsi allorché l’erogazione del buono pasto venga apprezzata avendo riguardo alla posizione dell’ente/datore di lavoro.
Tale erogazione da parte delle pubbliche amministrazioni è conseguente alle previsioni contenute nella disciplina di fonte contrattuale, trattandosi di spese che l’ente sostiene in relazione ai rapporti di lavoro dipendente posti in essere e, pertanto, rientra tra quelle inerenti il costo complessivo del personale. Conseguentemente, anche il costo relativo al buono pasto rientra tra le spese del personale.
Secondo la Corte, la recente manovra del d.l. n. 95/2012 (e, nello specifico, le previsioni dell’art. 7, comma 5) si inserisce in un corpus normativo dedicato alla revisione e riduzione della spesa pubblica.
Deve pertanto ritenersi conforme alla ratio della norma un’interpretazione ampia, riferita ad ogni forma o modalità organizzativa attraverso la quale in concreto l’Ente sostenga il costo per consentire la fruizione del pasto ai dipendenti che ne abbiano diritto, a nulla rilevando, ai fini dell’applicabilità della disposizione vincolistica, le concrete modalità di erogazione dei pasti medesimi, attraverso l’attivazione di un servizio mensa gestito direttamente dall’ente ovvero affidato in convenzione a terzi, ovvero, ancora, anche nell’ipotesi in cui l’ente opti per la corresponsione di ticket aventi un valore nominale pari al servizio mensa.
Conseguentemente, ciò che appare rilevante ai fini dell’applicazione della norma è il costo che deve sostenere l’ente per l’erogazione del pasto a favore del dipendente, che, a sua volta, deve correttamente farsi rientrare tra le varie voci di costo sostenute dall’ente datoriale pubblico per procurarsi la risorsa lavoro.
Il limite di cui all’art. 7, comma 5, risulta pertanto riconfermato anche nel caso esaminato.

di Salvio Biancardi

Fonte: La gazzetta degli enti locali

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