Al via la cessione del patrimonio

Fonte: Italia oggi

Alla fine ci si è arrivati. Nelle prossime settimane entrerà nel vivo il piano di valorizzazione e cessione del patrimonio pubblico. Schiacciato da un debito che ormai sta raggiungendo i 2 mila miliardi di euro, e pressato da un mercato che non dà respiro al famigerato spread, il presidente del consiglio Mario Monti ha annunciato ieri la predisposizione «di veicoli, fondi mobiliari e immobiliari, attraverso i quali convogliare, in vista di cessioni, attività mobiliari e immobiliari del settore pubblico, prevalentemente a livello regionale e locale».

In realtà lo schema era già stato delineato dallo stesso Monti all’interno del decreto legge 201 del dicembre 2011, con un coinvolgimento diretto dell’Agenzia del demanio. In base al provvedimento in questione, la struttura guidata da Stefano Scalera è chiamata promuovere la costituzione di società o fondi immobiliari per valorizzare, gestire e vendere il patrimonio immobiliare pubblico. L’obiettivo, secondo l’impalcatura delineata dal decreto stesso, è quello di fare cassa attraverso il collocamento delle quote dei fondi mobiliari e immobiliari tra privati e investitori. Si tratta dello stesso progetto che nel settembre del 2011 è stato proposto dall’associazione «L’Italia c’è», promossa dal Gruppo Class Editori (che edita questo giornale). Adesso, dopo una fase di gestazione più o meno laboriosa, il piano è pronto a decollare. Ma quali sono i numero in ballo? Una delle ricognizioni più complete è stata fatta dal capo economista della Cassa depositi e prestiti, Edoardo Reviglio, che in un dossier presentato il 30 settembre del 2011, quando a via XX Settembre c’era ancora Giulio Tremonti, ha stimato in circa 1.815 miliardi il valore dell’attivo dello stato. Dopo varie scremature, il rapporto calcola in 420 miliardi il valore di mercato degli immobili della pubblica amministrazione e in 132 miliardi quello delle partecipazioni. Circoscrivendo l’analisi al solo settore del mattone, dallo studio emerge che gli immobili dello stato valgono circa 72 miliardi di euro, quelli in carico alle regioni 11 miliardi, quelli alle province 29 e quelli che appartengono ai comuni la bellezza di 225 miliardi (seguono poi Asl, università e altri enti pubblici locali). Cifre che sono state indirettamente richiamate da Monti, quando ha appunto spiegato che la costituzione di fondi mobiliari e immobiliari servirà a convogliare attività che sono prevalentemente in mano a enti di livello regionale e locale.

Naturalmente fare cassa non significa incassare sic et simpliciter tanti denari. Anzi, rispetto alle cessioni immobiliari degli anni passati, fondamentalmente quelle effettuate tramite il meccanismo delle cartolarizzazioni, questa volta al centro del piano c’è la valorizzazione. È questo il grimaldello che dovrebbe contribuire a evitare quella che nel passato è stata un’autentica svendita. Con Scip 1 e Scip 2, i veicoli di cartolarizzazione creati a partire dal 2001 da Tremonti, sono stati messi in vendita circa 60 mila immobili pubblici per un valore di mercato che all’epoca venne stimato in 15,1 miliardi di euro. L’incasso, tramite il meccanismo della cartolarizzazione (in pratica un corrispettivo anticipato di vendita futura), è stato però di soli 8,9 miliardi. Di più, perché alla fine lo stato, per incassare questi 8,9 miliardi ha dovuto sostenere spese di funzionamento del sistema per circa 1,7 miliardi. Insomma, un fallimento certificato tra l’altro in alcuni rapporti della Corte dei conti. Per non parlare dell’esperienza del Fip, il Fondo immobili pubblici lanciato nel 2004 dall’allora ministro dell’economia Domenico Siniscalco (che comunque aveva gestito in prima persona anche le partite Scip 1 e Scip 2, dal momento che era il direttore generale del Tesoro). Ebbene, in Fip lo stato conferì circa 400 immobili a uso non residenziale il cui valore venne stimato in 3,6 miliardi di euro. In base agli accordi raggiunti tra il Tesoro e il gestore del Fip, ovvero una società che fa capo al gruppo bancario Finnat della famiglia Nattino, lo stato si assicurava la permanenza all’interno degli immobili in questione dietro il pagamento di un canone annuo che venne fissato in 270 milioni di euro. Un salasso, che nel corso degli anni ha praticamente eroso il guadagno che lo stato aveva messo a segno al momento dell’apporto degli asset.

Insomma, questa volta sembra proprio che la filosofia di base sia cambiata e che lo spettro di una svendita non ci sia. Monti è pronto e nelle prossime settimane il piano decollerà per abbattere un debito pubblico ormai insostenibile.

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