di Massimo Venturato
Appesantire i controlli non serve. E continuare a rilevare anomalie non risolve i problemi
Sfuggono troppi dati. Il controllo di gestione va adeguato
Qual è la contabilità idonea per gli enti locali? Possiamo continuare a tenere la contabilità finanziaria oppure sarebbe meglio abbandonarla e tenere solo la contabilità economicopatrimoniale? E quella armonizzata attualmente in uso, introdotta con il dlgs 118/2011, dà le risposte attese? Sembra proprio di no. Troppe sono le informazioni che sfuggono all’attuale sistema contabile, che risulta farraginoso e non in linea con i principi contabili (accrual) previsti dall’Unione europea. Ma cerchiamo di fare una rifl essione partendo dall’inizio. A cosa serve la contabilità in un ente locale? Innanzi tutto serve per contare le entrate e le spese. E non abbiamo ancora parlato di ricavi e costi. Deve servire per capire quanto possiamo spendere e di conseguenza se una spesa è autorizzata. Deve servire per monitorare la spesa in ragione delle entrate disponibili tenendo conto se queste vengono effettivamente incassate ovvero se sono nella reale disponibilità dell’ente. Deve servire per valutare se l’impiego delle risorse è fi nalizzato a spese inerenti al Dup (il documento unico di programmazione) e se queste risultano congrue. Deve, infi ne, servire per verifi care se vengono realizzati i programmi enunciati dagli amministratori ovvero di chi sono le responsabilità sulla mancata realizzazione degli stessi. Ma allora cosa non ha funzionato nella attuale contabilità finanziaria e perché si vuole cambiarla? Le fonti della contabilità sono le leggi in materia di fi nanza pubblica e di contabilità generale dello Stato. In Italia, la normativa contabilistica ha origine con la legge Cavour (n. 1483 del 1853), prosegue con le riforme promosse da esperti statisti, del rango di Quintino Sella, Scialoja, Cambray Digny, e culmina con le leggi De Stefani, vale a dire con il regio decreto 18 novembre 1923 n. 2440 (cosiddetta legge della contabilità generale dello Stato) e con il regio decreto 23 maggio 1924 n. 827 (cosiddetto regolamento per l’amministrazione del patrimonio e la contabilità generale dello Stato). Negli enti locali, sono le leggi degli anni 60 che introducono novità sostanziali sulla contabilità. Fanno seguito il dpr 421/79, che ha aperto la strada sulla pianifi cazione e programmazione, la legge 142 del 1990, cosiddetta «legge quadro», per arrivare al dlgs 77/95, preludio del dlgs 267/2000 (Testo unico sull’ordinamento degli enti locali) tutt’ora in vigore, con la previsione dei nuovi principi contabili. Le spese venivano allora autorizzate purché ritenute necessarie per l’ente e a condizione trovassero copertura in entrate, che, prima del federalismo fi scale, provenivano quasi interamente dallo Stato. La storia ci ha consegnato, però, molteplici disastri fi nanziari causati da sovrastima di entrate o sottostima di spese. Con il dlgs 118/2011, per cercare di ovviare a questo problema e far coincidere il più possibile l’imputazione di competenza con la cassa, si è introdotta la contabilità armonizzata fondata sul principio cardine della competenza fi nanziaria potenziata ovvero sul fatto che le previsioni delle entrate e delle spese rispettassero, per trovare allocazione nel bilancio, il requisito della loro esigibilità. Ma allora perché non funziona? Perché al di là degli accantonamenti previsti, necessari per il mantenimento degli equilibri di bilancio, quali il fondo crediti di dubbia esigibilità, il fondo passività potenziali ovvero il fondo per il ripiano perdite degli organismi partecipati, comunque si verifi ca che alcuni enti vanno in default? Da un recente studio dell’Osservatorio di fi nanza e contabilità degli enti locali, è emerso che la causa più ricorrente è la mancata riscossione delle entrate. La questione, però, non va ricercata solo sul fatto che non funzioni l’apparato gestionale, ma che, quando ciò accade in un piccolo comune, questo oggi non risulta più adeguato a dare le risposte attese. E non è più il caso di appesantire ulteriormente il sistema dei controlli come se continuando a rilevare le anomalie risolvessimo i problemi. Già con il dl 174 del 2012 si è irrigidito il sistema introducendo pareri obbligatori ovunque (si contano a carico dei revisori più di 100 adempimenti all’anno). Il governo dovrebbe ridisegnare i territori di competenza dei comuni mettendo in atto un accorpamento con una legge (e non con referendum) in modo che gli enti comunali comprendano una popolazione non inferiore a 80/100 mila abitanti, mantenendo le municipalità (come quelle di Roma Capitale) per i servizi del territorio (assistenza sociale, anagrafe ecc). Non è possibile oggi concepire che un comune con una popolazione inferiore a 5 mila abitanti (oggi se ne contano quasi il 70% del totale dei comuni) possa dotarsi di un sistema di controllo di gestione, necessario per passare da una contabilità finanziaria ad una contabilità economicopatrimoniale. Sono troppo scarse le dotazioni organiche per adempimenti così complessi. Va istituito, inoltre, un sistema di rilevamento contabile con un unico software uguale per tutti gli enti, messo a disposizione in «cloud» dal ministero dell’economia e delle fi nanze, in modo da poter leggere, a livello centrale, i dati in tempo reale. E poi vanno strutturati i «veri» controlli interni in modo che la spesa (che diventa costo nella nuova contabilità) sia controllata non solo per la sua entità e per il pagamento, ma anche per la sua qualità. Va perseguito, insomma, il modello dei Lep, i livelli essenziali di prestazione. Tutto questo dipende da un controllo di gestione, che diventerebbe fondamento per l’autorizzazione alla spesa. Solo la contabilità economico-patrimoniale, assieme ad un adeguato controllo di gestione, può permettere un rilevamento dei costi e dei ricavi per misurare in modo corretto la reale effi cacia, effi cienza ed economicità dell’azione amministrativa negli enti locali.
Rassegna stampa in collaborazione con Mimesi s.r.l.
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