Censurate dalla Consulta la normativa statale e regionale sull’associazionismo obbligatorio dei piccoli comuni

Cinque Comuni ricorrenti innanzi al TAR Lazio, nonché un’Associazione degli Enti Locali hanno chiesto l’incostituzionalità della normativa statale, hanno lamentato l’obbligo previsto dal d.l.78/2010 di dover procedere ad una forma associativa la gestione delle loro funzioni fondamentali…

5 Marzo 2019
Modifica zoom
100%

Cinque Comuni ricorrenti innanzi al TAR Lazio, nonché un’Associazione degli Enti Locali hanno chiesto l’incostituzionalità della normativa statale, hanno lamentato l’obbligo previsto dal d.l.78/2010 di dover procedere ad una forma associativa la gestione delle loro funzioni fondamentali, nonché avverso al legge regionale che ha indicato l’obbligo di dettaglio nei confronti dei piccoli comuni. In particolare, la normativa statale, in sintesi, stabilisce le funzioni fondamentali dei Comuni e prevede l’obbligo per i più piccoli di tali enti (quelli con popolazione fino a 5.000 abitanti o a 3.000, se montani) di esercitare le predette funzioni in forma associata, mentre la normativa regionale, in attuazione delle disposizioni statali, individua la dimensione territoriale ottimale e omogenea funzionale all’esercizio associato, nonché le scadenze temporali per l’avvio di tale modalità di gestione. In particolare i piccoli comuni costituitisi in giudizio, hanno lamentato, impugnandola, anche la circolare del Ministero dell’Interno, con la quale ai prefetti sono state impartite indicazioni operative per procedere alla ricognizione dello stato di attuazione della normativa e per diffidare i Comuni inadempienti. Il TAR ha, quindi, sollevato la questione preliminare di legittimità costituzionale della normativa statale e regionale.

Le indicazioni della Consulta

La Corte Costituzionale, con al sentenza n.33, depositata in data 4 marzo 2019, ha ricostruito il percorso delineato dal legislatore nazionale e regionale accogliendo il ricorso per incostituzionalità della normativa, che si è protesa ad indicare un obbligo per le funzioni, disinteressandosi dell’aspetto principiale riferito alle eventuali economie di scale, inoltre sarebbe mancata un preciso coinvolgimento di tali piccoli comuni.

In particolare, le disposizioni statali denunciate, in sintesi, stabiliscono l’obbligo per i Comuni di esercitare le funzioni fondamentali di cui sono titolari, elencano le funzioni fondamentali medesime, pongono l’obbligo, per i Comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti (o a 3.000, se montani), di esercitarle in forma associata mediante unione di Comuni o convenzione, disciplinano l’unione rinviando all’art. 32 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 recante «Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali» (comma 28-bis), vietano di svolgerle singolarmente o mediante più di una forma associativa, demandano alle Regioni, nelle materie di cui all’articolo 117, terzo e quarto comma, Cost., l’individuazione della dimensione territoriale ottimale per il predetto esercizio associato e definiscono il limite demografico minimo che le forme associate devono raggiungere. La normativa regionale, invece, individua la dimensione territoriale ottimale e omogenea funzionale all’esercizio associato e le scadenze temporali per l’avvio di tale modalità di gestione. A seguito di continue proroghe, il nuovo termine entro cui i Comuni interessati devono assicurare l’attuazione delle disposizioni di cui all’art. 14 del d.l. n. 78 del 2010 è stato più volte differito e, attualmente, è fissato al 30 giugno 2019, ai sensi dell’art. 1, comma 2-bis, del decreto-legge 25 luglio 2018, n. 91.

Le norme censurate

Secondo il Giudice delle leggi la previsione generalizzata dell’obbligo di gestione associata per tutte le funzioni fondamentali (ad esclusione della lett. l del comma 27) sconta, infatti, in ogni caso un’eccessiva rigidità, al punto che non consente di considerare tutte quelle situazioni in cui, a motivo della collocazione geografica e dei caratteri demografici e socio ambientali, la convenzione o l’unione di Comuni non sono idonee a realizzare, mantenendo un adeguato livello di servizi alla popolazione, quei risparmi di spesa che la norma richiama come finalità dell’intera disciplina. In altri termini, l’illegittimità costituzionale del d.l.78/2010 è relativa alla parte nella quale non prevede la possibilità, in un

contesto di Comuni obbligati e non, di dimostrare, al fine di ottenere l’esonero dall’obbligo, che a causa della particolare collocazione geografica e dei caratteri demografici e socio ambientali, del Comune obbligato, non sono realizzabili, con le forme associative imposte, economie di scala e/o miglioramenti, in termini di efficacia ed efficienza, nell’erogazione dei beni pubblici alle popolazioni di riferimento. La mancanza di tali elementi induce la Consulta a dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 14, comma 28, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78.

In merito alla posizione della legge regionale censurata dai cinque comuni e l’associazione, rileva il Giudice delle leggi come la individuazione da parte delle Regioni della dimensione territoriale ottimale e omogenea per lo svolgimento in forma obbligatoriamente associata delle funzioni fondamentali, il comma 30 dell’art. 14 del d.l. n. 78 del 2010, come sostituito dall’art. 19 del d.l. n. 95 del 2012, non impone alle Regioni stesse l’adozione della fonte legislativa ma, in ogni caso, prescrive la «previa concertazione con i comuni interessati nell’ambito del Consiglio delle autonomie locali». La normativa della regione Campania è, pertanto, illegittima per non aver attivato la concertazione richiesta in modo esplicita dalla normativa statale, a differenza di altre regioni. In altri termini, la legge regionale campana avrebbe dovuto attivare un procedimento bifasico, in cui la fonte primaria indicasse criteri generali, demandando poi la concreta individuazione dell’ambito territoriale a un atto amministrativo adottato all’esito della concertazione con i Comuni interessati.

Scrivi un commento

Accedi per poter inserire un commento