Soggezione passiva dei Comuni e la tutela della concorrenza (parte 1)

Con comunicato del 13/12/2016 la rivista telematica dell’Agenzia delle Entrate rende noto che:

Esaminando il regime fiscale degli enti pubblici territoriali, in particolare dei Comuni, si può notare, passando dall’ambito delle imposte dirette a quello dell’imposta sul valore aggiunto, una drastica diversità di trattamento.

Ai fini delle imposte dirette, infatti, l’articolo 74, comma 1, del Tuir, dispone che “Gli organi e le amministrazioni dello Stato, compresi quelli ad ordinamento autonomo, anche se dotati di personalità giuridica, i comuni, i consorzi tra enti locali, le associazioni e gli enti gestori di demanio collettivo, le comunità montane, le province e le regioni non sono soggetti all’imposta”.

Al contrario, ai fini Iva, l’articolo 4, comma 5, Dpr 633/1972, prevede che, salvo specifiche eccezioni, se detti enti esercitano attività economiche gli stessi sono assoggettati al tributo.

Considerato che le risorse degli enti pubblici derivano principalmente dal gettito fiscale e dai trasferimenti statali, la loro soggezione passiva ai fini Iva può sembrare paradossale: l’imposta viene, di fatto, pagata utilizzando il gettito di altri tributi o, comunque, denaro pubblico.

La discrasia potrebbe a prima vista giustificarsi in base alla natura comunitaria dell’Iva e alla sua partecipazione al finanziamento del bilancio dell’Unione, la realtà però è molto differente.

L’Iva, infatti, fatta eccezione per quella riscossa in dogana, non ha come funzione principale il finanziamento del bilancio unionale: gli Stati membri non versano all’Unione europea l’Iva riscossa, ma effettuano un versamento parametrato alla base imponibile Iva nazionale.

Le norme comunitarie (decisione 2007/436/Ce, del 7 giugno 2007), infatti, prevedono un sistema di riscossione e di accreditamento dell’Iva del tutto particolare, secondo il quale:

  • la base di calcolo iniziale presa in considerazione dallo Stato membro è un dato convenzionale e macro-finanziario (vale a dire, la somma dell’imponibile Iva prospettato nel progetto di bilancio e suddiviso in dodici versamenti mensili forfettari)
  • detta base imponibile iniziale, nel rispetto di un sistema di regolarizzazione e di accreditamento del tributo che deve garantire il rispetto dell’articolo 3 del regolamento (Cee, Euratom) 1553/89, non può essere inferiore a quella che si ottiene dividendo il totale delle entrate “nette” di Iva incassate dallo Stato membro nel corso dell’anno per l’aliquota ponderata vigente nel medesimo anno.

Alla base imponibile come sopra determinata si applica un’aliquota dello 0,30% (decisione 2014/335/Ue del 26 maggio 2014).

Senza addentrarci oltre nella problematica del calcolo della quota Iva di spettanza comunitaria, quello che è importante rilevare è che la soggezione passiva degli enti territoriali deriva dalla funzione fondamentale che è stata assegnata all’Iva al momento della sua istituzione: come emerge dal considerando n. 5 della direttiva 67/227/Cee dell’11 aprile 1967, detta imposta è stata introdotta nell’ordinamento comunitario per favorire la creazione di un unico mercato interno europeo strutturato sull’archetipo della concorrenza perfetta.

Una conferma indiretta di quanto argomentato si ritrae dalla natura dei provvedimenti normativi che il legislatore unionale utilizza per disciplinare il tributo: ai sensi dell’articolo 4, paragrafo 2, Tfue, il mercato interno rientra tra le competenze concorrenti dell’Unione e, per l’effetto, la normativa comunitaria in materia di Iva è costituita principalmente da direttive.

Queste ultime, come noto, dettano i criteri direttivi, lasciando gli Stati liberi di esercitare una certa discrezionalità in sede di recepimento; in caso di inerzia, comunque, considerato che le direttive Iva sono generalmente del tipo self-executing, le norme dalle stesse recate divengono immediatamente applicabili.

Prima dell’introduzione dell’Iva, nei vari Stati erano in vigore diversi tipi di imposte sui consumi.

Molte di esse, come chiarito nel considerando 4 della direttiva citata, essendo di tipo cumulativo e a cascata, influenzavano le soluzioni organizzative adottate dalle imprese e incoraggiavano operazioni di concentrazione che, come noto, rappresentano uno degli ostacoli fondamentali al gioco della libera concorrenza.

La correlazione tra la soggezione passiva degli enti pubblici territoriali e la tutela della concorrenza non è immediatamente percepibile dalla lettura del Dpr 633/1972, mentre è evincibile con immediatezza dal testo della direttiva 112/2006.

Stante la superiorità del diritto comunitario su quello nazionale e ricordato il carattere self executing delle direttive Iva, le norme nazionali in materia di imposta sul valore aggiunto devono essere interpretate in maniera da renderle conformi non solo ai principi dettati dalle direttive, ma anche alle norme riportate nel Trattato dell’Unione europea, alle norme del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea e ai principi enunciati dalla Corte di giustizia europea.

Un eventuale contrasto tra norma interna e norma comunitaria, infatti, non consente al giudice il rinvio pregiudiziale alla Corte costituzionale e l’eventuale conflitto va risolto in via diretta con la disapplicazione della norma incompatibile con l’ordinamento comunitario (sentenza della Corte costituzionale n. 170 del 5 giugno 1984 – caso Granital Spa).

Fatte queste brevi premesse e prima di analizzare le condizioni al verificarsi delle quali un ente territoriale può essere considerato un soggetto passivo Iva (l’analisi sarà svolta leggendo in parallelo la normativa nazionale e quella comunitaria e saranno, inoltre, richiamati i numerosi arresti giurisprudenziali e di prassi intervenuti sulla problematica che ci occupa), in via preliminare, per chiarire la rilevanza della questione, ci si soffermerà, brevemente, su alcune delle ricadute pratiche derivanti dalla qualificazione di un Comune come soggetto passivo Iva.

 Effetti della soggettività passiva del Comune

La soggezione passiva Iva si atteggia in maniera del tutto peculiare rispetto a quanto avviene per le altre imposte.

Essere un soggetto passivo, infatti, oltre all’adempimento di doveri formali e sostanziali, comporta anche l’attribuzione di una serie di diritti.

Ai fini che ci interessano, la facoltà maggiormente rilevante è quella prevista dall’articolo 19, comma 1, Dpr 633/1972, a mente del quale. “Per la determinazione dell’imposta dovuta…è detraibile dall’ammontare dell’imposta relativa alle operazioni effettuate, quello dell’imposta assolta o dovuta dal soggetto passivo o a lui addebitata a titolo di rivalsa in relazione ai beni ed ai servizi importati o acquistati nell’esercizio dell’impresa, arte o professione”.

Il riconoscimento della soggezione passiva se, come tipicamente avviene per gli enti territoriali, è accompagnato dalla realizzazione di un profitto nullo o negativo, si traduce essenzialmente in un vantaggio finanziario: essendo l’Iva a credito fisiologicamente maggiore dell’Iva a debito, l’ente si troverà costantemente in una posizione creditoria verso l’erario.

Oltre a rivestire grande importanza per l’ente, la sua soggezione passiva influenza anche gli adempimenti a carico dei soggetti che con lo stesso interloquiscono.

Per i fornitori di beni e servizi, in particolare, conoscere se l’ente stia o meno agendo come soggetto passivo è di fondamentale importanza per individuare il regime impositivo applicabile.

L’articolo 1, commi 629 e 631, legge 190/2014, ha, invero, ampliato il novero delle operazioni per le quali si applica il regime del reverse charge, ricomprendendo, in particolare, molte delle prestazioni di servizi relative al settore edile; considerata la mole del patrimonio immobiliare dei Comuni, il settore dell’edilizia vede, spesso, gli stessi agire in qualità di committenti.

Contemporaneamente, l’articolo 1, comma 629, lettera b), della stessa legge, ha introdotto per le cessioni di beni e le prestazioni di servizi rese a enti pubblici il particolare regime della scissione dei pagamenti (split payment).

Per individuare, nel caso concreto, quale dei due regimi risulti applicabile, è indispensabile sapere se l’acquisto si riferisce alla sfera istituzionale dell’ente oppure a quella commerciale: se l’ente effettua l’acquisto in relazione alla sfera istituzionale, si rende applicabile il regime dello split payment; se l’acquisto afferisce la sfera commerciale, al ricorrere delle condizioni oggettive, si rende applicabile il regime del reverse charge (cfr circolare 15/E del 13 aprile 2015).

 Altro profilo di estremo interesse si palesa nelle operazioni internazionali.

Senza entrare nel dettaglio, si ricorda che, giusto il disposto dell’articolo 41 del Dl 331/1993, una cessione effettuata da un soggetto passivo stabilito in uno Stato membro con spedizione del bene verso un altro Stato membro, viene considerata una cessione intracomunitaria solo se l’acquirente è un soggetto passivo; per gli enti non commerciali, in base all’articolo 38, comma 5, lettera c), la cessione si considera, in ogni caso, intracomunitaria se l’ente ha effettuato, su base annua, acquisti intracomunitari per oltre 10mila euro o se ha esercitato un’esplicita opzione.

 

Discorso analogo vale con riferimento alle prestazioni di servizi, cosiddette generiche, che, ai sensi dell’articolo 7-ter, comma 1, lettera b), Dpr 600/1973, si considerano effettuate nel luogo di stabilimento del committente solo allorquando lo stesso sia un soggetto passivo Iva; ai sensi del comma 2, lettere b) e c), dell’articolo citato, gli enti non commerciali che svolgono anche attività commerciali o che sono in possesso di un numero di partita Iva, ai fini della localizzazione delle prestazioni di servizi generiche, si considerano soggetti passivi anche se l’acquisto non riguarda la sfera commerciale.

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