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La mancata motivazione sull’incarico dirigenziale a contratto non è causa di nullità

Secondo il giudice di legittimità l’eventuale mancata motivazione richiesta dalla normativa, potrebbe al più rilevare sul piano disciplinare o contabile, ma la loro violazione non comporta di per sé sola la nullità degli atti adottati.

La Corte di Cassazione (sentenza n.6308/2021) ha riformato la sentenza dei giudici di appello che hanno dichiarato la nullità dell’assunzione del dirigente esterno per mancata motivazione richiesta dall’art.19, comma 6, d.lgs. 165/01. Secondo il giudice di legittimità l’eventuale mancata motivazione richiesta dalla normativa, potrebbe al più rilevare sul piano disciplinare o contabile, ma la loro violazione non comporta di per sé sola la nullità degli atti adottati che non siano conformi alla disposizione legislativa che non ne commina in modo espresso la nullità. In altri termini, la Corte di appello ha dichiarato la nullità del contratto dirigenziale dell’affidamento di un incarico a soggetto esterno alla pubblica amministrazione, per mancata motivazione nel provvedimento di conferimento, essendo quest’ultima richiesta in modo espresso dall’art.19, comma 6, d.lgs. 165/01 secondo cui “Tali incarichi sono conferiti fornendone esplicita motivazione, a persone di particolare e comprovata qualificazione professionale, non rinvenibile nei ruoli dell’Amministrazione…”. Per la Cassazione, invece, la violazione dei principi di imparzialità e buon andamento della Amministrazione (art. 97 Cost.) e il canone generale di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 cod.civ.), pur volendo attribuire ai medesimi carattere imperativo, in considerazione dell’interesse generale alla correttezza e legalità dell’ Amministrazione, se violati possono essere fonte di responsabilità per inadempimento, ovvero disciplinare o contabile, ove ne ricorrano i presupposti, ma in assenza di precetti specifici, la loro violazione non comporta di per sé sola la nullità degli atti adottati che non siano conformi ai richiamati principi.

La vicenda

A seguito dell’insediamento della nuova Giunta Regionale tutti gli incarichi dirigenziali esterni sono stati revocati. Uno dei dirigenti revocati il cui contratto quinquennale avrebbe avuto scadenza dopo quattro anni circa dalla revoca anticipata, ha presentato ricorso al giudice del lavoro chiedendo le differenze retributive fino alla scadenza naturale del contratto. Il Tribunale di primo grado ha accolto il ricorso, ma la Corte di appello ha riformato la sentenza con rigetto del ricorso presentato dal dirigente estromesso. A dire dei giudici di appello il contratto quinquennale stipulato con il dirigente esterno sarebbe stato affetto da nullità in quanto il provvedimento non conteneva alcuna motivazione circa il conferimento dell’incarico dirigenziale a persona non inserita nei ruoli dell’Amministrazione. Infatti, le disposizioni dell’art.19, comma 6, d.lgs. 165/01 prevedono espressamente che gli incarichi a soggetti esterni ai ruoli dell’ente possono essere conferiti “fornendone esplicita motivazione” a persone di particolare e comprovata qualificazione professionale, non rinvenibile nei ruoli dell’Amministrazione. A dire della Corte di appello, la disposizione legislativa avrebbe avuto carattere imperativo nella parte in cui impone l’obbligo di motivare in modo esplicito in ordine alla sussistenza dei presupposti enunciati nella medesima disposizione per l’attribuzione di incarichi dirigenziali a soggetti esterni, ha ritenuto che la violazione della predetta disposizione di legge comportava la nullità dei contratti ai sensi dell’art. 1418 c. 1 c.c.. Dall’affermata nullità del contratto sarebbe discesa l’impossibilità di riconoscere il diritto alla prosecuzione del rapporto e l’infondatezza delle domande risarcitorie avanzata dal dirigente esterno. Il dirigente estromesso ha, quindi, proposto ricorso in Cassazione evidenziando l’errore commesso dai giudici di appello in ordine all’obbligo di motivazione, non previsto in modo esplicito nella disposizione legislativa all’epoca del conferimento dell’incarico dirigenziale.

La riforma della sentenza

Il ricorso è fondato nella parte in cui il dipendente si duole di una nullità del contratto stipulato. Infatti, al momento del conferimento dell’incarico l’art.19, comma 6, del d.lgs. 165/01 prevedeva come “Tali incarichi sono conferiti a persone di particolare e comprovata qualificazione professionale, che abbiano svolto attività in organismi ed enti pubblici o privati ovvero aziende pubbliche o private con esperienza acquisita per almeno un quinquennio in funzioni dirigenziali, o che abbiano conseguito una particolare specializzazione professionale, culturale e scientifica desumibile dalla formazione universitaria e postuniversitaria, da pubblicazioni scientifiche o da concrete esperienze di lavoro maturate, anche presso amministrazioni statali, in posizioni funzionali previste per l’accesso alla dirigenza, o che provengano dai settori della ricerca, della docenza universitaria, delle magistrature e dei ruoli degli avvocati e procuratori dello Stato …”.

Secondo la Cassazione, non può porsi alcun dubbio che i principi di imparzialità e di buon andamento della Amministrazione postulano che le scelte di quest’ultima, anche quando agisce come datore di lavoro privato, siano trasparenti e che pertanto di esse sia dato conto attraverso l’ostensione delle ragioni che hanno ispirato il suo agire negoziale. Ed è altrettanto innegabile che la esplicitazione delle ragioni del ricorso a professionalità “esterne” per l’affidamento di incarichi dirigenziali è finalizzata all’esigenza eminentemente pubblicistica di consentire la verifica del rispetto delle condizioni per l’attribuzione degli incarichi dirigenti ai soggetti esterni. Tuttavia, dalla mancanza della motivazione non deriva la nullità degli atti con i quali la Pubblica Amministrazione si avvale, ricorrendone i presupposti, della facoltà di affidare incarichi dirigenziali a soggetti estranei, a meno che tale mancanza non sia sanzionata in modo esplicito da norme di legge. I principi di imparzialità e buon andamento della Amministrazione (art. 97 Cost.) e il canone generale di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 cod.civ.), pur volendo attribuire ai medesimi carattere imperativo, in considerazione dell’interesse generale alla correttezza e legalità dell’ Amministrazione, se violati possono essere fonte di responsabilità per inadempimento, ovvero disciplinare o contabile, ove ne ricorrano i presupposti, ma in assenza di precetti specifici, la loro violazione non comporta di per sé sola la nullità degli atti adottati che non siano conformi ai richiamati principi. In altri termini, li dove la legge non stabilisca in modo espresso la nullità del contratto stipulato, solo violazione di norme inderogabili concernenti la validità del contratto è suscettibile di determinare la nullità del contratto e non già la violazione di norme, anch’esse imperative, riguardanti il comportamento dei contraenti.

In conclusione, diversamente da quanto affermato nella sentenza impugnata, la mancata motivazione esplicita delle ragioni della scelta adottata dalla PA non comporta, ai sensi dell’ art. 1418 cod. civ., la nullità della delibera stessa e dei successivi contratti di lavoro stipulati, per contrarietà a norma imperativa. Ciò per la semplice ragione che non è rinvenibile nessuna norma che sanzioni con la nullità la violazione del dovere di motivare le ragioni dell’affidamento dell’incarico dirigenziale a soggetti “estranei” all’ Amministrazione.

Inoltre, la Corte di appello, pur affermando correttamente che in caso di nullità del contratto non sussiste il diritto alla prosecuzione del rapporto, ha errato nel considerare che l’inesistenza di professionalità interne, proprie dell’incarico da conferire, costituiva presupposto indefettibile, la cui mancanza avrebbe dovuto comportare la nullità dei contratti, per l’affidamento dell’incarico dirigenziale all’esterno e tanto nonostante l’inesistenza di una norma di legge all’epoca che prevedesse la sussistenza di tale presupposto.

Principio di diritto

Nella riforma della sentenza la Cassazione ha stabilito, pertanto, il seguente principio di diritto “La nullità dei contratti trova la sua disciplina nell’art. 1418 cod.civ. (cui fa rinvio per gli atti unilaterali l’art. 1324 cod.civ. seppur con la clausola di salvezza della compatibilità), applicabile ai rapporti di lavoro cd. privatizzato presso le pubbliche amministrazioni. Ai sensi dell’art. 1418 c. 1 cod.civ., ove non altrimenti stabilito dalla legge, unicamente la violazione di norme inderogabili concernenti la validità del contratto è suscettibile di determinare la nullità del contratto”.


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