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No” al rimborso delle spese legali se la causa è attivata dal dipendente

Il dipendente che, per la difesa dei propri diritti, adisce l’autorità giudiziaria e l’amministrazione successivamente prima della causa di merito, agisce in autotutela ripristinando il diritto violato, rende la causa priva di interesse con conseguente inammissibilità delle ragioni inizialmente richieste dal dipendente pubblico.

Il dipendente che, per la difesa dei propri diritti, adisce l’autorità giudiziaria e l’amministrazione successivamente prima della causa di merito, agisce in autotutela ripristinando il diritto violato, rende la causa priva di interesse con conseguente inammissibilità delle ragioni inizialmente richieste dal dipendente pubblico. In questo caso, secondo il TAR per il Lazio (sentenza n.5849/2020) il dipendente non è abilitato a richiedere il rimborso delle spese legali sostenute per l’attivazione del giudizio in quanto, questa ipotesi, non è stata prevista dal legislatore.

Il fatto

Un dipendente pubblico non contrattualizzato (ma i medesimi principi sono estensibili anche ai dipendenti contrattualizzati) ha adito il Tribunale amministrativo di primo grado per vedersi riconoscere un diritto a non essere messo in congedo da parte dell’ente in quanto la decisione è stata basata su presupposti non previsti dalla normativa. A seguito dell’accoglimento della istanza cautelare da parte dei giudici amministrativi, l’ente ha proceduto all’annullamento in autotutela del provvedimento di negazione del diritto reclamato dal dipendente. Il dipendente, tuttavia, in considerazione delle spese legali sostenute per il giudizio amministrativo, ha chiesto alla PA il ristoro delle spese legali sostenute. A fronte del diniego da parte della propria PA, il dipendente ha, quindi, presentato ricorso al giudice amministrativo chiedendo la condanna dell’ente al rimborso delle spese legali sostenute a causa del giudizio instaurato per l’annullamento del provvedimento e, in via alternativa, ha chiesto che venga accertato il suo diritto al risarcimento dei danni subiti, conseguenti all’adozione dell’illegittimo provvedimento di sua messa in congedo per riforma. L’ente ha richiesto l’infondatezza del ricorso e la conferma della correttezza del proprio operato.

Le indicazioni del Collegio amministrativo

I giudici amministrativi di primo grado scindono le richieste avanzate dal dipendente, da un lato per ottenere il ristoro delle spese legali sostenute e, dall’altro lato, un’azione per il risarcimento dei danni subiti a causa del provvedimento impugnato con il ricorso, inequivocabilmente illegittimo poiché annullato in autotutela dall’Amministrazione.

In merito al rimborso delle spese legali sostenute dal pubblico dipendente è disciplinata dall’art. 18, comma 1, 1 del D.L. n. 67 del 1997, convertito nella legge n. 135 del 1997, il quale testualmente dispone che: “Le spese legali relative a giudizi per responsabilità civile, penale e amministrativa, promossi nei confronti di dipendenti di amministrazioni statali in conseguenza di fatti ed atti connessi con l’espletamento del servizio o con l’assolvimento di obblighi istituzionali e conclusi con sentenza o provvedimento che escluda la loro responsabilità, sono rimborsate dalle amministrazioni di appartenenza nei limiti riconosciuti congrui dall’Avvocatura dello Stato. Le Amministrazioni interessate, sentita l’Avvocatura dello Stato, possono concedere anticipazioni del rimborso, salva la ripetizione nel caso di sentenza definitiva che accerti la responsabilità”. Pertanto, secondo la normativa affinché il pubblico dipendente possa invocare l’applicazione del citato art. 18 risulta necessario che ricorrano i seguenti presupposti:

La giurisprudenza ha negato l’applicazione il rimborso delle spese legali quando il proscioglimento sia conseguenza di cause diverse dal merito, come l’estinzione del reato, l’intervenuta prescrizione, oppure quando sia stato disposto per ragioni processuali, quali la mancanza delle condizioni di promovibilità o di procedibilità dell’azione (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 28 novembre 2019, n. 8137; Sez. IV, 4 settembre 2017, n. 4176; Sez. VI, 2005, n. 2041). Tale condizione, tuttavia, non è sufficiente in quanto il presupposto per il il riconoscimento del rimborso delle spese legali è che il dipendente abbia agito in nome, per conto ed anche nell’interesse dell’Amministrazione; solo in tal caso, infatti, è possibile ravvisare il nesso di immedesimazione organica in ordine ai fatti o agli atti oggetto del giudizio (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 28 novembre 2019, n. 8137), oltre all’esistenza di un nesso di strumentalità tra il compimento dell’atto o del fatto e l’adempimento del dovere, non potendo il dipendente assolvere ai propri compiti, se non tenendo quella determinata condotta (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 26 febbraio 2013, n. 1190).

Tali indicazioni sono state anche condivise dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione in ordine ai rapporti di impiego pubblico contrattualizzato (cfr. 29 gennaio 2019, n. 2475; 6 agosto 2018, n. 20561; Sez. Lav., 6 luglio 2018 n. 17874; 5 febbraio 2016 n. 2366; Sez. Lav, 3 febbraio 2014, n. 2297).

Secondo le indicate coordinate del giudice amministrativo e di legittimità è stato concluso che andrà esclusa la spettanza del beneficio del rimborso delle spese legali al dipendente quando:

In altri termini, secondo il legislatore, al fine del rimborso delle spese legali è necessario che sussista uno specifico nesso causale che consenta di affermare la stretta riconducibilità del fatto contestato all’espletamento del dovere d’ufficio, pena la dilatazione del perimetro applicativo della norma oltre i confini delineati dal legislatore.

Precisata la non applicabilità nel caso di specie del rimborso delle spese legali, resta da verificare la possibilità del risarcimento del danno chiesto in alternativa dal dipendente. Precisa il Collegio amministrativo come l’azione volta a chiedere ed ottenere il risarcimento del danno che un soggetto ritiene di avere subito a causa di un provvedimento amministrativo non può, infatti, essere basata sulla mera adduzione dell’illegittimità del provvedimento stesso, bensì richiede la ricorrenza dei requisiti soggettivi dell’illecito, riferibili al comportamento dell’Amministrazione, e del nesso causale, e, in particolare, impone che l’interessato offra validi elementi di prova, utili a palesare non solo il danno subito ma anche la stretta, diretta riconducibilità dello stesso alla “negligenza” e all’“imperizia dell’organo nell’assunzione del provvedimento”, i quali – nel caso di specie – risultano del tutto carenti.

In conclusione, per le sopra indicate ragioni, il ricorso deve essere respinto.


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