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Comuni, con il debito allo Stato 800 milioni d'interessi in meno

di Gianni Trovati

Con l’accollo dei mutui allo Stato la spesa sarà ridotta di oltre il 50 per cento

Dalla ristrutturazione dei debiti comunali con l’accollo allo Stato possono arrivare risparmi per 800 milioni, che taglierebbero di oltre il 50% la spesa per interessi oggi sostenuta dai sindaci sui propri mutui.

Il calcolo, emerso dalle analisi proposte ieri dall’Ifel nella giornata di approfondimento sulla manovra, intreccia la stretta attualità parlamentare visto che le regole sulla ristrutturazione, scritte nel Milleproroghe, stanno passando in queste ore l’esame in commissione Bilancio alla Camera. E servono a mettere vento nelle vele di una norma che gli amministratori locali hanno concordato con la viceministra dell’Economia Laura Castelli (M5S) per provare a chiudere un problema strutturale dei conti locali.

Perché i numeri proposti dalla Fondazione dell’Anci per la finanza locale sono ambiziosi solo all’apparenza. La stima nasce dalla distanza fra il tasso medio oggi pagato dai Comuni, intorno al 4,5%, e quello vicino all’1% con cui oggi lo Stato si finanzia con le emissioni decennali. Una distanza alimentata dal fatto che la gran parte dei mutui comunali è vecchia, nata prima della crisi di finanza pubblica che ha gelato i tassi. Ma il passaggio allo Stato previsto dal Milleproroghe alzerebbe il merito di credito del titolare del debito, che avrebbe anche una forza negoziale maggiore nel rinegoziare i contratti con Cdp (controparte di quasi tre quarti dei 37,7 miliardi di debito comunale) e le banche; senza costi aggiuntivi per il Tesoro, perché gli interessi residui rimarrebbero a carico dei Comuni, così come le penali che di fatto rappresentano ancora lo scoglio più insidioso per l’operazione. Ma le penali, ragionano i tecnici Anci-Ifel, rappresentano il costo da riconoscere per gli interessi futuri che non sarebbero pagati per l’estinzione anticipata. Se scendono gli interessi, quindi, dovrebbero sgonfiarsi anche le penali.

Su questi aspetti tecnici la partita è aperta. Ma il senso dell’operazione, che punta a tagliare drasticamente la spesa improduttiva per eccellenza per liberare risorse da destinare ai servizi, è chiaro. Così come è chiara l’incognita principale: la difficoltà di coordinare la ristrutturazione di migliaia di contratti sparsi fra 8mila Comuni soprattutto piccoli e medi. Per questa ragione le regole attuative, da scrivere in un decreto di Palazzo Chigi già in cantiere, dovrebbero prevedere una delega forte alla struttura centrale che al Mef dovrà coordinare le operazioni. In pratica, i sindaci dovrebbero bussare alla porta di Via XX Settembre per manifestare la volontà di intervenire sul proprio debito, ma sarebbe la regia centrale a definire caso per caso la strada da percorrere fra rinegoziazione, ristrutturazione ed estinzione anticipata.

Il nodo del debito è parente stretto dell’altro fronte caldo per gli enti locali, quello degli investimenti. Dopo un 2019 in ripresa la manovra ha rinnovato il ventaglio dei contributi (1,06 miliardi quest’anno, 4,4 nel triennio 2020-2022). Ma sul rilancio della spesa in conto capitale è piombata l’incognita della delibera 20/2019 della Corte dei conti a Sezioni riunite secondo cui le riforme degli ultimi anni non possono aver cancellato le regole del pareggio di bilancio fissate dalla legge 243/2012. Una lettura, questa, che imporrebbe ai Comuni di rispettare un “doppio” pareggio di bilancio, con il rischio di frenare proprio gli investimenti.

Per questa ragione, dalla Ragioneria dovrebbe arrivare un’interpretazione che vede la legge 243 in vigore a livello di comparto, mentre i singoli Comuni sarebbero tenuti a rispettare solo il pareggio “semplificato”. Una soluzione amministrativa, probabilmente nella consueta circolare annuale sui vincoli di finanza pubblica, che permetterebbe di aggirare il problema in attesa di una sistemazione più solida.

Rassegna stampa in collaborazione con Mimesi s.r.l.


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