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Uso indebito della carta di credito del Comune, pena ridotta se le spese hanno prodotto vantaggi all'ente

di Michele Nico

La sentenza della Corte dei conti d’appello n. 14/2020 Un atto formalmente illegittimo può non essere dannoso o esserlo in misura più contenuta rispetto all’importo della correlativa spesa indebita, tenuto conto dei vantaggi comunque conseguiti dall’ente o dalla comunità amministrata. Sulla base di questo principio la Corte dei conti d’appello, con la sentenza n. 14/2020, pur confermando la condotta antigiuridica di un sindaco per l’utilizzo indebito della carta di credito del Comune, ha dimezzato l’addebito posto a carico dell’amministratore per effetto della condanna del giudice di primo grado. La sentenza è interessante perché delinea il quadro normativo di riferimento per l’uso della carta di credito aziendale da parte della pubblica amministrazione, in alternativa agli ordinari mezzi di pagamento e «qualora non sia possibile o conveniente ricorrere alle ordinarie procedure», come specificato dall’articolo 1, comma 47, della legge 549/1995. Il quadro normativo La disciplina organica della materia è stata rimessa al regolamento ministeriale Dm 701/1996, emanato con il pregevole intento di dettare regole chiare e precise per l’utilizzo di questa modalità di pagamento da parte dei vertici della Pa. Questo regolamento ribadisce che l’uso della carta di credito non può essere generalizzato, ma è consentito limitatamente ad alcune tipologie di spesa, come quelle relative all’acquisto di beni e servizi in economia, all’organizzazione e partecipazione a seminari e convegni, nonché per le spese di trasporto, vitto e alloggio sostenute dal personale in occasione di missioni. In questi casi «il titolare della carta di credito deve far pervenire, entro il 15 del mese successivo a quello in cui le spese sono state sostenute, all’ufficio competente per la liquidazione, apposito riepilogo corredato della prescritta documentazione giustificativa, ivi comprese le ricevute rilasciate dai fornitori di beni e/o servizi attestanti l’utilizzo della carta stessa» (articolo 7, comma 2 del Dm 701/1996). Una siffatta prescrizione è funzionale al controllo delle spese da parte dell’ufficio preposto alla liquidazione, al fine di accertare che le stesse siano state sostenute in conformità alla vigente normativa in materia. La decisione La Corte dei conti per la Lombardia aveva condannato il sindaco di un Comune e il dirigente dell’ufficio «relazioni esterne e segreteria del sindaco» al risarcimento del danno erariale per complessivi 34.403,09 euro, oltre a interessi legali e spese di giudizio, per l’indebito utilizzo, da parte dell’amministratore locale, della carta di credito dell’ente e per la liquidazione, da parte del suddetto dirigente, delle spese autorizzate in assenza della prescritta rendicontazione e documentazione giustificativa, nonché in violazione della normativa di cui sopra. I giudici dell’appello hanno confermato l’illecito dei convenuti per una condotta «censurabile sul piano formale e di stretta legittimità», ma hanno ravvisato le motivazioni per l’esercizio del potere riduttivo della pena in capo al sindaco (unico soggetto appellante), in quanto alcune delle spese illegittimamente disposte avevano comunque procurato una serie di vantaggi all’ente locale e alla collettività. La riduzione dell’addebito I magistrati scrivono sul punto che «non può negarsi l’esistenza di spese che non sembrano perseguire interessi personali e che, pur con l’improprio utilizzo del mezzo di pagamento e la violazioni di prescrizioni formali, non escludono il rapporto con gli interessi dell’ente o il possibile vantaggio conseguito dalla collettività». Si tratta di spese collegate a eventi di sicuro rilievo pubblico, come le colazioni offerte ai militari impegnati nel disinnesco di ordigni esplosivi nel territorio comunale, le colazioni offerte ai rappresentanti delle forze dell’ordine in occasione dell’allestimento di mostre o la preparazione e lo svolgimento di eventi commemorativi legati alla storia della città. Come si vede, la Sezione centrale d’Appello si è dimostrata meno severa dei giudici di primo grado e ha escluso un rapporto di identità tra dannosità e illegittimità della spesa, annettendo un giusto rilievo all’effettiva utilità che la condotta illegittima ha procurato alla Pa. In altre parole, trova conferma il principio secondo cui la responsabilità erariale richiede sempre, come presupposto indefettibile, la dimostrazione di un pregiudizio economico concreto per l’erario, posto che il giudice contabile non può attivarsi per la mera e generica violazione dei principi di imparzialità e di buona amministrazione.

Rassegna stampa in collaborazione con Mimesi s.r.l.


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