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I tagli del 2014 azzerano già i fondi di 46 enti
Viminale. Il decreto sulla spending

Mentre ingaggiano la battaglia per limitare sul 2015, le Province si vedono recapitare gli effetti dei tagli di quest’anno, ricomposti nel decreto diffuso ieri dal ministero dell’Interno in un decreto con le assegnazioni definitive del loro «fondo sperimentale di riequilibrio». Assegnazioni, in verità, che dopo le varie sforbiciate si colorano di rosso nel senso che il provvedimento, nato in tempi ordinari per distribuire i fondi agli enti territoriali, ora in realtà chiede «restituzioni» allo Stato.

A livello generale, il bilancio è negativo per 200 milioni, nel senso che a fronte di 200,2 milioni da assegnare ce ne sono 401,6 che le Province devono restituire allo Stato, ma com’è ovvio il quadro cambia da ente a ente: le Province interessate sono le 86 collocate nelle Regioni a Statuto ordinario, e di queste sono in 41 (cioè il 48%) a dover restituire soldi allo Stato. E non si tratta di cifre da poco: la Provincia di Milano, che non è riuscita nemmeno a impegnare la propria quota da 60 milioni in Expo aprendo nei conti della società una falla che attende ancora di essere colmata, si vede recapitare il conto più pesante, e dovrebbe entro fine anno trovare 85,3 milioni da restituire allo Stato. A Roma il decreto chiede 71 milioni, mentre a Torino la richiesta è di 32,2 milioni, ma anche Province più piccole come Varese, che arriva quinta nella classifica delle restituzioni appena dopo Bologna, deve trovare subito 21,5 milioni. Notizie un po’ migliori arrivano nel Mezzogiorno, dove le maggiori esigenze di perequazione fanno in modo che per ora il fondo non si azzeri del tutto: a Napoli il decreto assegna 16,3 milioni, mentre Cosenza e L’Aquila si assicurano 15 milioni a testa. Come detto, però, questo è solo l’antipasto di quello che arriverà nel 2015, con il taglio da un miliardo (1,2, in realtà, contando anche gli effetti ulteriori sul prossimo anno delle regole già in vigore) ipotizzato dalla legge di stabilità: taglio destinato a raddoppiare nel 2016 ed a salire fino a quota 3 miliardi nel 2017.

Nei giorni scorsi gli amministratori locali hanno incassato le prime, ipotetiche aperture per una revisione dei tagli, anche se sono parecchio limitati i margini di flessibilità di una manovra già sotto i riflettori dell’Europa, ma il problema non è nei dettagli. La strategia è chiara, e punta a togliere risorse alle Province per spingere il passaggio di funzioni a Comuni e Regioni, in base alle decisioni che prenderanno i territori, ma ad oggi i tagli paiono correre molto più veloci rispetto alle attuazioni locali della riforma. E se le risorse vengono a mancare prima delle funzioni, è naturale che il sistema si inceppi.

L’Unione delle Province (si veda la tabelle sotto) calcola che in alcune realtà le richieste del Governo superino abbondantemente le risorse disponibili per i servizi; anche considerando le eventuali cessioni di funzioni con i relativi costi (cosa che il calcolo targato Upi non fa), però, il problema non cambia: in capo alle Province rimangono infatti, anche dopo la riforma, «funzioni fondamentali» su istruzione, trasporti e gestione del territorio, una massa di spesa calcolabile intorno ai 6 miliardi: la manovra ne taglia in un colpo solo il 20%, per arrivare al 50% nell’arco dei tre anni, e in molte amministrazioni questo si può tradurre con l’impossibilità di riscaldare le scuole o di manutenere le strade.


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